II DI PASQUA - In albis depositis - Gv 20, 19-31


Nonostante Pietro e Giovanni abbiano visto il sepolcro vuoto, nonostante Maria di Magdala avesse avuto l’incontro col Risorto, i discepoli la sera di quel giorno, il primo della settimana sono chiusi nel cenacolo per paura dei Giudei.

La paura abita il giorno di Pasqua, la paura non abbandona mai la nostra vita, viviamo e conviviamo con le nostre paure. È la tentazione delle porte chiuse, della chiusura del cuore e della mente, della nostra stessa vita.

Già sarebbe importante dare un nome alle nostre paure, chiamarle con il loro proprio nome, perché non siano esse a governare la nostra esistenza e a farci regredire e ritornare sui nostri passi. Questo sarebbe un esercizio psicologico, importante e utile se volete, ma non è quello che Gesù sembra fare con i suoi.

Osserviamo più da vicino i gesti e le parole del Signore risorto, anche solo quelli del primo quadro del Vangelo.

Cosa fa anzitutto il Signore? Vediamo i suoi gesti:

venne Gesù; c’è il suo venire; colui che è venuto dal Padre e che ora viene dal mondo della morte.

Stette in mezzo a loro, dice la presenza solenne dello stare di Gesù in mezzo alle paure dei discepoli, alle loro angosce, alle loro chiusure.

Mostrò loro le mani e il fianco, un gesto profondo, mostra agli amici i segni della passione, di quella passione dalla quale erano fuggiti, sempre per paura.

Infine un quarto gesto di Gesù, un po’ inconsueto: soffiò, su di loro, così come l’Eterno aveva alitato su Adamo, dandogli il suo soffio vitale. Gesù dà il soffio della nuova creazione.

E poi vediamo cosa dice Gesù, osserviamo le sue parole: per due volte saluta annunciando la pace, lo shalom, una terza volta lo dirà anche la domenica successiva con Tommaso.

Un’altra parola di contenuto più ampio riguarda la missione: come il Padre ha mandato me, anch’io mando voi. Rende partecipi i discepoli della sua stessa missione.

Infine la terza parola di Gesù è la spiegazione del gesto inconsueto del soffiare: è il dono dello Spirito santo per il perdono dei peccati.

Resurrezione e perdono dei peccati sono profondamente connessi: Gesù comunica il dono della sua croce, il perdono, la vittoria sul male; la vittoria del bene sul male, non mediante lo schiacciamento del male, bensì mediante il perdono del male, che è tutto un progetto di vita: vincere il male con il bene del perdono.

È questo il disegno di Dio, il progetto divino che deve essere il vero progetto pastorale della Chiesa nella società.

Avete notato la triplice insistenza sulle ferite di Gesù: all’inizio è Gesù stesso che le mostra, poi è Tommaso che le esige come prova, e alla fine è Gesù stesso che le mostra a Tommaso.

Ci chiediamo: perché Gesù presentandosi vivo, perfettamente integro, con un corpo che può passare attraverso le porte chiuse, conserva questi segni della sua debolezza, della sua mortalità, della sofferenza? Nessuno di noi che ha subito un’operazione chirurgica ne conserva volentieri la cicatrice e anzi il chirurgo stesso cerca di fare in modo che non si veda, che possa scomparire col tempo.

Come mai allora Gesù, conserva nel suo corpo il ricordo di questa violenta sofferenza, che segna il suo fallimento, il suo essere stato respinto? Come mai pur essendo entrato nell’eternità, avendo quindi abbandonato la dimensione del tempo, essendo uscito dalle categorie spazio-temporali, conserva misteriosamente i segni dolorosi?

Provo a rispondere con un racconto. Al processo di Norimberga contro i capi del regime nazista comparve un testimone che per un certo periodo di tempo in Polonia aveva vissuto in un cimitero, nascosto in una tomba. Era un ebreo e una tomba era l’unico posto sicuro per lui per non finire in una camera a gas. In una tomba accanto alla sua una giovane donna diede alla luce un bambino. Il becchino del cimitero, ottantenne, aiutò la giovane donna a partorire. Quando il neonato emise il suo primo grido, il vecchio ottantenne pregò: Dio ci hai finalmente mandato il Messia? Infatti chi altro se non il Messia stesso può nascere in una tomba? Tre giorni dopo il poeta vide il bambino che succhiava le lacrime della madre, perché la madre non aveva più latte per lui.

Trovo questo racconto straordinario, amarissimo e bellissimo insieme. Anzitutto perché una tomba diventa un culla, il luogo dove la vita finisce diventa il luogo dove la vita comincia, figura potentissima del Vangelo di Pasqua, dove dal sepolcro sorge la vita nuova, eterna.

In secondo luogo,  per l’attesa dell’ottantenne che in mezzo alla tragedia della persecuzione, dello sterminio, quando tutto parlava di morte, il cimitero diventa luogo dell’attesa, del messia, dell’inizio.

In terzo luogo: chi se non il Messia potrebbe nascere in una tomba? Cioè dove deve apparire il Messia se non nel luogo della nostra sconfitta per darci vittoria, nel luogo della nostra fine per darci un nuovo inizio? La conclusione è amarissima come amare sono tutte le lacrime umane.

Ma che cosa vogliono significare quelle lacrime se non che la via del Messia è amara fin dall’inizio e che la salvezza dell’umanità ha un costo alto, altissimo e che anche noi dobbiamo versare le nostre lacrime?

Le ferite del Risorto hanno sicuramente un significato per così dire più teologico: perchè la croce non è stata un incidente di percorso, il Risorto è per sempre il Crocifisso e si presenta al Padre come colui che è passato per amore attraverso la morte di croce.

La chiesa ha dunque al suo centro il Risorto e non dovrà mai dimenticare che è insieme il Crocifisso. Il kerygma annunciato da Pietro con franchezza, con parresia, nella prima lettura comprenderà per sempre inscindibilmente morte e risurrezione di Gesù. Dunque nelle stimmate è racchiuso un profondo significato teologico.

Ma hanno anche un significato antropologico, umano. Di che cosa sono segno queste ferite, umanamente parlando? Se non delle lacrime di quella donna, segno dell’ amore proprio di chi dona la vita, e con essa sono il segno di tutti i sacrifici, delle rinunce, di tutti quei gesti storici d’amore quotidiani che non sono conosciuti né visti da nessuno?

Il Risorto,  mostrando le sue ferite, ci annuncia che l’amore, il sacrificio, la rinuncia … ebbene tutto il nostro soffrire per amore ha già vinto la morte, è entrato nel dinamismo della risurrezione, della vita nuova, quella eterna. Penso alle parole di don Tonino Bello che ricordando il martirio di mons. Romero, così diceva: «Signore, se la sofferenza per il Regno ci lacererà le carni, fa’ che le stigmate, lasciate dai chiodi nelle nostre mani crocifisse, siano feritoie attraverso le quali possiamo scorgere fin d’ora cieli nuovi e terre nuove» (23 marzo 1987).

Preghiamo perché le ferite dell’amore che portiamo su di noi ci aiutino a crescere nella vita nuova, nella vita risorta.

 (Gv 20, 19-31)