PASQUA - RISURREZIONE DEL SIGNORE - Gv 20, 1-9
(Gv 20, 1-9)
«Cristo è risorto! È veramente risorto! ».
Sono le parole con cui nel giorno di Pasqua si salutano i cristiani d’oriente, parole che ripetiamo volentieri anche noi, soprattutto quest’anno in cui la Pasqua è celebrata in una data comune a tutti cattolici, ortodossi, anglicani e riformati.
Ed è un saluto molto più significativo del nostro generico: Buona Pasqua! Cosa diciamo augurando Buona Pasqua ai nostri cari, ai nostri amici e a quelli che incontriamo? Che sia una buona giornata, che siano vacanze serene …. che cosa
intendiamo dire? Di sicuro qualcosa che riguarda noi e il nostro tempo, il nostro futuro, al punto che potremmo dire che augurarci Buona Pasqua significhi augurarci buona fortuna! C’è in queste parole un desiderio, forse male espresso, che le cose comunque possano andare diversamente.
Ma senza il Cristo Risorto cosa possiamo sperare? Senza questa iniziativa dell’Eterno che ha rialzato il Cristo dalla
morte, cosa possiamo augurarci?
Ecco perché il saluto orientale: Cristo è risorto ci ricorda che la Pasqua è Gesù Vivente ed è in lui, con lui e per mezzo di lui che ci è dato di pensare che le cose possano andare diversamente e possiamo guardare alla nostra vita, alla vita dei nostri cari e dei nostri amici e alla vita del nostro mondo con gioia e con speranza.
Nel vangelo non c’è una parola di Gesù, non c’è ancora un incontro con il Risorto, eppure Gesù Risorto è presente più che
mai in questo racconto: tutto accade, tutto si narra intorno al grande assente che in realtà pervade della sua presenza la vita di Maria di Magdala, di Pietro e del discepolo amato. In ognuno di loro c’è un poco di ciascuno di noi.
Anzitutto incontriamo Maria di Magdala che al mattino presto, quando era ancora buio, se ne va al sepolcro. Giovanni dice addirittura che ci va da sola – cosa improbabile- è piuttosto la figura di quelle donne che, come attestano tutti e quattro i vangeli, dalla Galilea hanno seguito il Signore fino all’epilogo drammatico della croce e che non resistono all’irrefrenabile desiderio di un ultimo commiato, di un ulteriore gesto di affetto e di amicizia, perché come aveva ben detto il Maestro sul monte delle Beatitudini: «Dov’è il tuo tesoro, là sarà anche il tuo cuore» (Mt 6,21).
Il cuore della Maddalena è lì, davanti a quel sepolcro dove il Signore è stato deposto, ed è un cuore in pianto, un cuore
lacerato. Possibile che le cose non potessero andare diversamente? Non era tempo di auguri quella mattina per lei. Aveva deciso di seguire il rabbi di Nazaret, un profeta che l’aveva guarita e le aveva ridato fiducia nella vita e ora le sue speranze si frantumano di fronte all’imboccatura di un sepolcro; nemmeno un corpo su cui piangere e per cui pregare: Hanno
portato via il mio Signore!
Maria non si rende conto che non si può portare via un corpo e lasciare ben piegato il sudario che gli copriva il volto, ma queste sono osservazioni che si fanno a sangue freddo, adesso il suo cuore è sconvolto: Hanno portato via il mio Signore!
Ecco Maria di Magdala vorrebbe ritrovare almeno un corpo, un oggetto su cui piangere, un preziosismo oggetto smarrito da
recuperare, Maria vacilla nel constatare che la sua ricerca, tipica di chivorrebbe trattenere per se, non porta a nulla, non ha futuro. Ed è una realtà intollerabile, insopportabile, infatti ella cerca sostegno, supporto e allora corre da Pietro,dalla comunità.
Subito Pietro e l’altro discepolo si mettono a correre verso il sepolcro. Ma in tutto questo correre a vedere, quasi un fare a gara per arrivare primi al sepolcro è solo del discepolo amato che si dice: e vide e credette.
Chi è questo discepolo, innominato, l’altro rispetto a Pietro, quello che Gesù amava? Gli esegeti ci insegnano a identificarlo in Giovanni stesso, ma credo che non dobbiamo avere fretta di dargli un nome: il discepolo che Gesù ama è un semplice discepolo, è uno che Gesù ama e che si lascia amare da Gesù.
L’abbiamo già incontrato in questi giorni della settimana santa: è il discepolo che è stato al fianco di Gesù durante l’ultima cena. È il discepolo che nel venerdì santo ha accompagnato Pietro nella casa del sommo sacerdote, da cui era conosciuto, mentre Gesù era avviato alla condanna. Siamo dinnanzi ad una figura che nel racconto evangelico è spessissimo in coppia con Pietro il capo. Dunque uno è il discepolo amato, la figura del semplice discepolo che Gesù ama e che si lascia amare da Gesù e l’altro la figura dell’istituzione: entrambi vedono gli stessi oggetti, le stesse cose. Pietro entra per primo, ma non comprende. L’altro discepolo, quello amato, vide e credette. Ed è il primo a credere nel Risorto.
Questo ci dice che l’esperienza della fede è del tutto gratuita, nessun titolo umano conferisce una precedenza nel credere. Non a caso la fede comincia spesso non dai capi della comunità, ma dai semplici fedeli. Nella Chiesa ci sono missioni specifiche, funzioni e ruoli affidati ad alcuni e non ad altri, ma prima di tutto c’è il dono della chiamata alla fede, che non tiene conto di alcun ruolo. Da qui viene la Chiesa, viene dall’alto, ma questo alto non è la gerarchia, è il Signore. Nessuna autorità ecclesiastica può effettivamente chiamare alla fede, e d’altra parte senza la fede non si può far parte della Chiesa, anche se uno vi ricoprisse le più alte funzioni.
Ancora osservate come il discepolo amato non cerchi nemmeno di convincere Pietro, e se sta zitto. Perché? Perché la fede ha una dimensione così personale che è difficile convincere qualcuno che il Signore è risorto solamente perché ci sono i teli per terra e il sudario piegato. I teli e il sudario li vedono entrambi, ma la capacità di leggere i piccoli segni discreti che il Signore dà, viene non tanto da ciò che si vede, ma da colui che vede.
Vedere il sepolcro vuoto non basta per credere nel Risorto: non avevano infatti ancora compreso la Scrittura che cioè egli doveva risorgere dai morti. Occorre che la parola di Dio illumini l’imboccatura dei nostri cuori e delle nostre menti che talvolta sono come sepolcri del pensiero e dell’amore.
C’è sempre nell’uomo un orientamento erroneo e un’ottusità spirituale che impediscono di vedere un futuro diverso e allora ci accontentiamo di augurarci Buona Pasqua, auspicando vagamente un destino migliore.
Oggi sappiamo che da soli non possiamo risollevarci dalla morte; che verrà un Altro; che è già venuto e che viene, verrà ogni giorno. Sappiamo che ha già comincia a rialzarci dalla morte perdonando i nostri peccati, che già ci fa sperimentare la gioia quando vinciamo il male con il bene e quando apre i nostri occhi affinché vediamo i segni di risurrezione che sono dentro la nostra vita, dentro la storia del mondo.
Appena ci sciogliamo un attimo dal nodo in cui noi stessi ci annodiamo cercando di meritare qualcosa, allora ci accorgiamo
della necessità dell’assenza e della morte. Forse è il momento in cui smettiamo di stringere noi stessi il nodo.
Augurarci Buona Pasqua significa credere che le cose possono andare diversamente se come Maria di Magdala ci lasciamo purificare il cuore dal desiderio di possedere e di trattenere le persone, le cose, Gesù stesso e le idee che ci siamo fatti di lui
e su di lui.
Augurarci Buona Pasqua vuol dire chiedere al Signore per ciascuno di noi una fede coraggiosa come quella di Pietro, per crescere nella relazione con Gesù che non sempre Pietro tesso ha compreso, al punto da rinnegarlo.
Ancora augurarci Buona Pasqua è per noi oggi imparare a correre con un passo veloce, come quello di Giovanni, appena fuori di qui per amare dell’amore con cui Gesù lo ha abbracciato e che gli ha permesso non solo di essere credente, ma anche di essere credibile.