I DOPO IL MARTIRIO DI S. GIOVANNI IL PRECURSORE - Mt 4, 12-17


audio 4 set 2022

L’arresto prima e l’uccisione poi del Battista devono essere stati un duro colpo per Gesù: era suo mentore, suo amico. Eppure non lo vediamo retrocedere o ritrattare, anzi ne raccoglie il testimone. Le prime parole di Gesù, sono esattamente le ultime del Battista: Convertitevi perché il regno dei cieli è vicino.

E come a voler dare una svolta alla sua vita, Gesù decide di uscire di casa! Certo se uscire di casa a trent’anni per oggi può essere quasi normale, in quel tempo non doveva essere visto molto bene, anche perché a quell’età uno normalmente aveva un lavoro, si era sposato, aveva già dei figli…

Non solo, Gesù decide di trasferirsi da Nazaret, un villaggio tranquillo, a Cafarnao, a circa 50 km di distanza, sulle rive del lago di Tiberiade, una cittadina di frontiera, sulla via del mare, crocevia di carovane e di commerci. Precisa Matteo: nel territorio di Zabulon e di Neftali, due nomi che a noi possono dire poco, ma che nella memoria collettiva di Israele, richiamavano le prime due tribù deportate in Assiria settecento anni prima.

Insomma Gesù compie una scelta ponderata, la sua non è una semplice reazione: affronta le ferite storiche della sua gente, entra in quel buco nero della storia che sono le sconfitte, le umiliazioni, le violenze.

Perché? Matteo cerca di dare un senso a questa decisione del Signore, citando il profeta Isaia, quando dice che per quel popolo che conobbe tanta violenza, tanta oscurità, c’è una speranza, c’è una luce. È evidente che Matteo vede in Gesù la luce che brilla in quelle tenebre.

Sì, ma sono anche trascorsi settecento anni! Se pensiamo che noi come popolo non abbiamo nemmeno una storia di settecento anni: a fatica ricordiamo che nel XIV secolo c’era il ducato di Milano, la signoria di Firenze, la repubblica di Venezia, il regno di Napoli e lo stato pontificio… non abbiamo una memoria storica collettiva, la nostra è da sempre una memoria storica frantumata in mille interessi e fazioni.

Eppure anche in queste oscurità c’è una luce di speranza. Secondo Matteo il fatto che Gesù decida di spostarsi a Cafarnao in Galilea, nella cosiddetta “curva delle genti”, nel crocevia della storia, si configura come un evento illuminante.

Le città di quell’area denominata appunto Galilea “curva delle genti” non erano propriamente molto religiose, avevano più a cuore gli scambi e gli interessi economici, commerciali e strategici… Infatti Giuseppe Flavio dice che quelle città avevano qualche migliaia di abitanti che parlavano l’ebraico ma anche il greco.

La decisione di Gesù di spostarsi proprio lì, di andare ad abitare a Cafarnao poteva essere letta anzitutto come la scelta di chi si vuol defilare, di chi evita, per prudenza, lo scontro con i centri di potere per non fare la fine del Battista. Questo trasferirsi lontano da casa, a circa 50 Km dal paese dov’è cresciuto e vissuto, luogo degli affetti… per Gesù consiste in ben altro: è un vero e proprio spostamento dal centro di gravità intorno al quale normalmente si svolge la vita di una persona.

Quello di Gesù è un decentramento che gli permette di abbracciare non solo quelli della sua casa, i suoi parenti e amici, ma anzitutto di incrociare proprio quella gente che normalmente non afferiva al tempio, alla religiosità rigorosa di Gerusalemme.

Quello che poteva essere un semplice fatto di cronaca, in realtà registra una chiara decisione del Cristo, un grande atto d’amore, come scriveva bene Maria Zambrano: L’atto d’amore è uno spostamento del centro di gravità[1].

Non è forse vero che nel momento in cui abbiamo il coraggio di operare una sorta di decentramento, vale a dire di spostare il centro di gravità che ruota tutto intorno a noi stessi, alle nostre vicende, ai nostri interessi allora ci è dato di avvertire anzitutto una libertà che dischiude nuovi orizzonti, apre nuove relazioni e ci solleva dalla zavorra che ci trattiene condizionati dalle aspettative che l’ambiente riversa su di noi?

Eppure, come accade a Isaia, la gente, il popolo non è disposto a compiere questo atto di fiducia. Gli abitanti di Gerusalemme in un momento critico e difficile non sono disposti a un atto d’amore, ma si ripiegano su sé stessi, sulla difesa del proprio particolare e non hanno uno sguardo sulla storia che sia capace di futuro… al punto che il profeta sembra gettare la spugna consegnando questa pagina che è considerata appunto il suo testamento che Isaia conclude dicendo: «Nella conversione e nella calma sta la vostra salvezza, nell’abbandono confidente sta la vostra forza».

Conversione, calma… queste sono le parole di Isaia, che riecheggiano nell’appello di a Cafarnao quando dice: Convertitevi!

Che cos’è la conversione se non l’invito a decentrarci, a compiere un atto d’amore. L’atto d’amore è uno spostamento del centro di gravità, diceva la Zambrano che riguarda le nostre relazioni con gli altri, con la storia, con le vicende umane, o anche con l’ambiente e la natura come ci ricorda questo tempo di riflessione sulla salvaguardia del creato?

Ma perché dovremmo convertirci? Perché dovremmo decentrarci? Perché il regno dei cieli è vicino. Dice Gesù, facendo eco alle parole di Giovanni. Sono parole misteriose, se non fosse perché siamo abituati a ripeterle. Che Giovanni sia stato decapitato, non dice proprio che Dio regni. Piuttosto ci conferma che regna il male e la violenza. Così quale luce brilla per le tribù di Zabulon e di Neftali che vengono deportate?

Dobbiamo dunque chiederci che cosa intende Gesù quando parla del regno di Dio, che poi è l’invocazione che ci ha trasmesso anche nella preghiera del Padrenostro, ed è un tema fondamentale nella sua predicazione. Eppure il Signore non dà mai una definizione teorica di cosa sia il regno di Dio. Ricorre a paragoni, a parabole: è come un seme, una rete, una perla preziosa, un tesoro nascosto in un campo…

Tutta la sua vita da quando scende a Cafarnao in poi mentre annuncia questo regno per noi misterioso, Gesù non fa altro che prendersi cura dei malati, dei poveri, dei piccoli. Sempre. Non c’è peccatore che venga rimandato col suo peccato. Non c’è straniero o scartato che non sia accolto. Come a dire che se noi del regnare ci facciamo un’idea di potere, di dominio, di qualcuno di più forte che controlla uno più debole, Gesù lo converte nell’idea del servizio.

Per Gesù il regno non è come una macchina già fatta che viene dall’alto e si instaura sulla terra. Il regno è una rete di relazioni che lui instaura scegliendo di stare accanto a chi si sente lontano da Dio. Il regno si attua in tutta la sua vita, in questo suo modo di fare e di essere, fino alla sua morte e risurrezione.

È un regno che si attua gradualmente in tutti noi, in tutti coloro che entrano negli atteggiamenti e nelle relazioni di Gesù, vivendo come lui ha vissuto, offrendo la propria vita come lui l’ha offerta.

In questo senso brilla una luce anche nelle condizioni più oscure, difficili della vita, nella misura in cui ciascuno di noi entra nel progetto di Gesù e si fa in qualche modo uno con Gesù e instaura nella sua vita relazioni con gli altri e con le cose del mondo, secondo il modo di fare del Cristo.

Mi viene da pensare che allora l’insieme di coloro che vivono così e che attuano il regno di Dio, diviene secondo la parola di Gesù, sale della terra e luce del mondo. A prescindere dall’appartenenza a una qualche chiesa o a una qualsiasi religione.

In questi tempi di propaganda occorre che verifichiamo se coloro che si vantano del nome cristiano vivono secondo il modo di regnare di Gesù, o se invece usano la fede e la religiosità per scalare il potere, per umiliare i piccoli, i poveri, i malati, gli stranieri, che sono invece i preferiti dal Signore.

(Is 30,8-15b; Mt 4,12-17)

[1] “Il centro di gravità della persona si è trasferito alla prima persona amata e, nel momento in cui la passione svanisce, resterà quel movimento, il più difficile, dello stare ‘fuori di sé’. […] Vivere fuori di sé per essere oltre sé stessi. Vivere disposti al volo, pronti a qualunque partenza. È il futuro inimmaginabile, l’irraggiungibile futuro di quella promessa di vita vera che l’amore insinua in chi lo sente”. Maria Zambrano, Filosofia e poesia.