IV DI AVVENTO - Lc 19, 28-38


Ci domandiamo come mai la liturgia ambrosiana ci faccia leggere una pagina evangelica che rimanda, dal punto di vista cronologico, all’inizio della settimana santa. Siccome si tratta di una tradizione antica, già attestata nel VI secolo, la domanda si fa ancora più intrigante e io non posso che rispondere con qualche suggestione che mi fa pensare come questa scelta del passato abbia una sua attualità.

Se già nel VI secolo alla quarta domenica di avvento, ormai a poco più di due settimane dal Natale, si avvertì la necessità di ricordare la traiettoria di questa venuta che va dalla stalla alla croce, fa appunto pensare che le generazioni che ci hanno preceduto poterono vivere lo stesso nostro rischio di ridurre il mistero dell’Incarnazione a una festa di compleanno!

Un compleanno speciale, di un personaggio speciale che ha cambiato il corso della storia… ma pur sempre e solo una festa tanto mondana che ormai ha dimenticato anche il festeggiato!

Ci rendiamo conto di essere in una fase di transizione di cui vediamo ormai l’epilogo. Si va chiudendo – nonostante qualche timida e nostalgica resistenza – l’epoca cosiddetta della cristianità, dove tutti e tutto, almeno a parole e all’apparenza, ruotava intorno alla religione, allorquando anche il calendario civile era dettato dalle celebrazioni cristiane e la vita era segnata nei suoi passaggi fondamentali dai sacramenti cristiani… una débâcle rapida e pervasiva in poche decine d’anni.

Già questo dovrebbe far riflettere i nostalgici circa la consistenza e la profondità di quel regime di cristianità.

Ora siamo nella transizione, anche se non siamo ancora in una cultura di totale indifferenza e l’agnosticismo per quanto diffuso, ancora tollera che la festa continui e infatti sembra che nonostante tutto i simboli cristiani tengano. Ma nel senso che succede a Natale quello che accade nelle grandi feste: anche qui ci sono gli imbucati senza vergogna e senza pudore.

Ci sono gli imbucati del Natale e sono coloro che pensano a come guadagnare di più, pensano ai propri interessi, sono coloro che ormai svuotati di tutto, si aggrappano alla festa ma non sanno nemmeno chi sia il festeggiato.

Ecco allora l’idea sapiente della Chiesa: arrivati alla Quarta domenica di Avvento ci invita a ricordare che quel Gesù che nasce nella stalla di Betlemme, è lo stesso che di lì a qualche anno entrerà in Gerusalemme… e non ne uscirà vivo! Almeno secondo le intenzioni delle autorità e degli uomini di potere che lo crocifiggeranno. Ecco se vuoi festeggiare il Natale, ricordati di chi stiamo parlando.

Parliamo di Gesù che entra in città, entra nella vita e nelle relazioni della città con un atteggiamento provocatorio: non viene a cavallo come gli imperatori, non viene con l’auto blu come i potenti di oggi, così come nemmeno sul calvario avrà la scorta delle guardie del corpo, ma viene a dorso d’asino.

Che è un parodiare la regalità davidica con un rovesciamento paradossale: l’uomo che non ha un posto dove posare il capo (Lc 9,57-58) è un re che non possiede nulla e deve chiedere in prestito – neanche un cavallo, ma un asino! Abbiamo sentito l’insistenza sui particolari: Il Signore ne ha bisogno. È un re che ha bisogno che qualcuno gli presti un asino!

È lo stesso animale che ritroviamo nel presepe, probabilmente perché doveva riscaldare il Bambino, ma sta lì a ricordarci soprattutto che il Signore non entra nella vita della gente con la protervia e la prepotenza, non abita la città con la violenza e l’arroganza. L’ingresso di Gesù è il compimento di una vita iniziata dal monte delle Beatitudini, è la contestazione radicale di ogni ingresso trionfale.

Perché quando entri nella vita e nelle relazioni con gli altri con fare trionfante vuol dire che hai umiliato qualcuno. E questo qualcuno è pur sempre un essere umano e il Signore viene anche per lui.

E poi c’è una seconda cosa che il richiamo all’ingresso di Gerusalemme ci suggerisce, e sono le conseguenze che suscita quel gesto. Cosa accade? Gerusalemme è scossa da questo gesto e tutti ne parlano, tutti si interrogano… e mi ha fatto pensare alle parole non poco ironiche pronunciate dall’Arcivescovo nel suo tradizionale Discorso alla Città, giovedì 6 dicembre nella Basilica di Sant’Ambrogio: «Siamo autorizzati a pensare».

Come l’ingresso di Gesù ha suscitato reazioni diverse, ha costretto la gente e le autorità a interrogarsi e a prendere posizione sul significato di quello che vedevano, così il richiamo dell’Arcivescovo ad essere autorizzati a pensare, ci sollecita a non lasciare che il Natale diventi un’emozione irrilevante per i problemi della città o un mero evento commerciale.

Perché è qui tutta da vedere la contraddizione che attraversiamo: mentre vogliamo il presepe, assistiamo al dilagare della banalità del male, del gusto di escludere e di infierire sull’altro perché “non dei nostri”… allora di fronte alla gioia del sopruso ottuso e ignorante occorre tornare a pensare e a far pensare.

«Tra le tendenze che oggi minano il pensare – afferma l’Arcivescovo – mi pare che sia insidioso l’utilitarismo che riduce il valore all’utile immediato e quantificabile, che si chiami profitto, consenso, indice di gradimento. Il pensiero asservito all’utilitarismo si riduce a calcolo, quindi a valutare risorse e mezzi in vista di un risultato per lo più individuale o corporativistico piuttosto che di un fine comune e condiviso».

«Vogliamo lavorare per superare il mero “pensiero calcolante” in favore di un allargamento del concetto di ragione; un pensiero realista, che abbia a cuore la ricerca continua della verità e del bene condiviso» dice il vescovo Delpini.

Domani ricorrono i settant’anni della Dichiarazione universale dei diritti umani, Dichiarazione che indica nel rispetto degli uguali diritti di ogni essere umano il fondamento di un mondo libero, giusto e in pace.

È triste constatare come ad oggi nessuno degli stati firmatari abbia riconosciuto ai cittadini tutti i diritti che si era impegnato a promuovere!

A 70 anni dall’approvazione della Dichiarazione, il panorama mondiale è preoccupante: dal Messico – dilaniato da violenza, corruzione e impunità – alle Filippine, dall’Egitto – in cui sparizione e tortura sono comuni “strumenti” di repressione – alla Turchia, trasformato nel più grande carcere a cielo aperto per giornalisti… per nominarne alcuni.

Ma ciò che ci deve ancor più far pensare è come, rispetto alla stagione dei tribunali internazionali degli anni Novanta, è aumentata la soglia di tolleranza globale nei confronti dei responsabili di gravi abusi, spesso visti e interpretati come leader e “salvatori”.

Suona vera e attuale la costatazione amara della lettera agli Ebrei: Al momento presente però non vediamo ancora che ogni cosa sia a lui sottomessa!

Una costatazione che ci deve sollecitare proprio in questo nostro tempo a lavorare per quella che Romano Guardini in una delle sue opere più famose definì L’essenza del cristianesimo.

In un’epoca di transizione occorre puntare sull’essenza e cos’è l’essenza del cristianesimo se non semplicemente Gesù come Cristo? A fronte di forme di cattolicesimo più o meno conservatore nelle quali Gesù è praticamente assente e sembra sostituito da altri pseudo-cristi, riconoscere Gesù come il Cristo, l’impregnato di Dio implica il seguirlo nel suo annuncio e nel suo lavoro per quello che chiamava “il regno, la signoria di Dio”.

Questa signoria di Dio significa che l’essere umano sta al di sopra di tutto il sacro (Mc 2,27-29), che i dannati della terra sono i preferiti di Dio (Lc 6,20-26), che quello che si fa loro, lo si fa a Dio (Mt 25, 31ss), che il discepolo di Gesù perdona e ama i nemici (Mt 5, 43-38) e che c’è un’incompatibilità radicale tra Dio ed il denaro (Mc 10, 17ss)…

Insomma abbiamo da lavorare sodo per tenere vivo il messaggio paradossale di Gesù nella città dell’uomo e per non essere annoverati tra coloro che cantano il Gloria a Natale, e poi il Crucifige a Pasqua!

Mi verrebbe da tessere un elogio dell’asino, perché non dobbiamo mai smettere di fare la sua fatica nel lavorare giorno dopo giorno nella nostra professionalità, nel nostro lavoro, ma anche con la cultura, la musica, l’arte e la letteratura per far entrare nelle dinamiche della città un poco di Vangelo, senza dimenticare di farlo con lo stile di Gesù: vale a dire con mitezza, gentilezza, rispetto e con la tenacia che quella povera bestia ci sta a ricordare.

Non possiamo rimanere neutrali e irragionevoli, ma a partire dalle nostre relazioni e negli incontri che viviamo quotidianamente con le persone più vicine, lasciandoci ispirare dall’atteggiamento di Gesù, impariamo a pensare e a far pensare.

(Is 4,2-5; Eb 2,5-15; Lc 19, 28-38)