VII DOPO PENTECOSTE - Gv 16, 33 - 17, 3
Continuando il racconto della storia della salvezza, oggi incontriamo il successore di Mosè, il condottiero Giosuè. E forse dopo aver ascoltato la prima lettura ci domandiamo: «Come possiamo dire che sia parola di Dio quando uno come Giosuè crede perfino di fermare il sole per fare strage di nemici?». Tra l’altro vorrebbe fermare il sole quando ha già vinto e gli avversari sono in fuga e coinvolge Dio così da permettere a lui di sterminarli tutti! (Gs 10, 6-15).
Certo deve essere stata dura venire dopo Mosè. Giosuè ha avuto un’eredità pesante: prendere in mano il governo di un popolo che ancora fatica a pensarsi così, alcune delle dodici tribù volevano la terra, anzi alcune si erano già installate di qua dal Giordano… e poi non avevano capito che la terra non gliela regalava nessuno. Insomma tenere testa a tutti non deve essere stato facile. Non facciamo fatica ad immaginare i discorsi della gente ogni giorno: «Ma Mosè avrebbe fatto così, avrebbe detto cosà… e invece questo chi si crede di essere!».
Giosuè doveva dimostrare di essere all’altezza della responsabilità, doveva conquistarsi la fiducia della gente. Niente di meglio che fare guerra, e guardate che la guerra di cui ci parlava il cap.10 non era neanche una minaccia diretta a Israele: sono gli abitanti di Gabaon che lo tirano in mezzo e a lui non sembra vero, quale occasione migliore: sul campo di battaglia non temeva il confronto con Mosè. E poi una guerra è un ottimo antidoto per unire gli animi divisi tra di loro. Un leader sa quanti problemi interni si risolvono se al popolo dai un nemico comune!
Infatti oggi lo vediamo con il suo esiguo esercito dopo aver percorso di notte 20 km da Galgala (vicino a Gerico) che sale a Gabaon un dislivello di 900 m., per andare ad affrontare un esercito di ben cinque re alleati.
La marcia di Giosuè e dei suoi è notturna per non permettere ai nemici di vedere quanto esigua fosse la consistenza del proprio gruppo armato.
Ebbene quando Giosuè arriva a Gabaon, a ovest nella valle di Aialon dove sono accampati i nemici c’è ancora la luna, mentre a est, da dove arriva lui, sta sorgendo il sole e allora comincia ad avere paura e si rivolge al Signore perché il sole, più che fermarsi, aspetti a fare luce e la luna invece permanga nella sua luminosità che permette di vedere, ma non troppo, così da portare a buon fine la battaglia.
Pensate un po’ che questo racconto biblico veniva citato per contestare a Galileo Galilei il sistema copernicano (1543) e a fondamento della difesa del sistema tolemaico (II sec. d. C.)… Ma è così che dobbiamo leggere la parola di Dio? è così che dobbiamo leggere la storia?
La preghiera di Giosuè, il suo grido al sole e alla luna, la dicono lunga sul senso di questa battaglia, ma non troveremo in tutto il libro di Giosuè una qualche somiglianza con le epopee classiche che descrivono consigli di guerra, che raccontano strategie militari, che cantano duelli epici fra eroi… E nemmeno con la nostra letteratura risorgimentale.
Ricordate la storia della presa di Gerico. Giosuè aveva preparato l’esercito, aveva affilato le spade… ma quello che il Signore gli chiede di fare non è altro che una processione. Per sei giorni hanno girato intorno alle mura in silenzio, sono sfilati il popolo, i sacerdoti e l’arca dell’alleanza intorno alle mura della città. Solo al settimo giorno, ad un segnale convenuto, hanno dato fiato alle trombe e lanciato l’urlo di guerra, come per dare inizio al combattimento… e cosa succede? le mura si sbriciolano e Gerico cade.
Facciamo fatica ad andare dietro a questi racconti, ma non perché siano incredibili, piuttosto perché non vogliamo imparare la lezione. Non l’ha capita Giosuè, ma non vogliamo capire nemmeno noi che c’è anche un altro modo di mandare avanti la storia.
Qualche secolo dopo, si affaccia sulla scena del mondo un altro personaggio che si chiama come lui, Gesù, poi la traduzione per non confonderlo ha voluto che si pronunciasse diversamente: Giosuè, ma anche lui si chiamava Gesù.
Gesù nel vangelo di Giovanni dice: «Nel mondo avete tribolazioni, ma abbiate coraggio: io ho vinto il mondo» (16,33 – 17,3). E si vede che ha vinto il mondo: di lì a pochi anni l’hanno inchiodato sulla croce, chi ha vinto che cosa?
Noi diciamo questo perché abbiamo dentro una convinzione che ci viene trasmessa con il latte della mamma: vince il più forte, vince il potente, se sei disarmato perdi, se non fai vedere i muscoli sei finito. Ed è evidente che è così, perché la storia la raccontano i vincitori. Non si è mai sentito dire di una storia scritta dagli sconfitti.
Gesù ci chiede la disponibilità a scrivere invece qualche capitolo di questo libro che è cominciato col Vangelo, che è cominciato con lui e con gli operatori di pace. Sempre che vogliamo cambiare la storia.
Quando Gesù prega Dio, dicendo: glorifica il figlio tuo perché il figlio glorifichi te! Rivolgendosi al Padre così, in un certo senso ci sta provocando: noi sappiamo bene cosa si intende per «gloria». La gloria è il successo, è la vittoria. Ma quando parliamo di successo e di vittoria non ci rendiamo sempre conto e non vogliamo vedere che c’è sempre qualcuno che ha perso e qualcuno che viene sconfitto. C’è chi viene esaltato e chi viene umiliato.
Se un esercito esulta per la vittoria, le famiglie dell’altro esercito piangono per il dolore dei morti e dei feriti.
Davvero dobbiamo tornare a mettere la croce sugli scudi o sulle fusoliere dei caccia bombardieri?
Finché continuiamo ad armare e ad armarci non vinciamo, non superiamo la logica della violenza. Gli eserciti di sinistra hanno combattuto Dio per il potere della chiesa; gli eserciti di destra hanno sostenuto la Chiesa e il nome di Dio per il loro potere.
Sarà anche una semplificazione, ma se rimaniamo alle parole e alla vita di Gesù quello che è certo è che lui si pone non solo sul calendario come spartiacque tra prima e dopo di lui, ma è il crinale per un modo di pensare diversamente l’umanità e il suo futuro.
Abbandoniamo i massimi sistemi e veniamo a noi, alle nostre piccole guerre quotidiane.
Ognuno di noi ha da combattere la propria battaglia, la propria lotta spirituale, consapevoli come Giosuè della vertiginosa debolezza di quei peccatori che siamo noi, delle poche armi e dell’esiguità delle nostre forze, ma dall’altro certi della forza soave e irresistibile della grazia, dell’amore di Dio.
Noi non vinceremo mai, saremo sempre dei figli amati. Tutti. Gesù non ha vinto il mondo con il buon senso che pure tante volte ci è necessario; non l’ha vinto con la mediazione politica che pure ci è utile; e tanto meno con la forza…
L’ha vinto quel giorno in cui anche il sole si oscurò per il Figlio amato, il giorno in cui si arrestò la luce e si fece buio su tutta la terra fino alle tre del pomeriggio, perché quel giorno Dio ha vinto la morte, ha vinto il peccato e ci ha detto che la nostra vita ha un orizzonte più grande che va oltre, per una vita che non muore.
Ed è questa la battaglia prefigurata in quella di Giosuè: non solo egli porta lo stesso nome di Gesù, ma il passaggio del Giordano che introduce nella terra promessa, è il tipo del battesimo in Gesù che introduce in Dio; le battaglie di Giosuè sono il tipo della lotta di Gesù sul monte delle tentazioni fino al Getsemani, per dire che anche per noi che combattiamo ogni giorno, la vera formazione è questa lotta spirituale che come dice Paolo affrontiamo quando ci misuriamo con «la tribolazione, l’angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, il pericolo e la spada» (Rm 8, 31-39). Sette situazioni emblematiche nelle quali, dice l’apostolo, noi siamo «più che vincitori», grazie a colui che ci ha amati.
Se proprio di vittoria dobbiamo parlare, dice Paolo, non è quella che viene dal confidare nei nostri mezzi e nelle nostre armi, ma nell’accettare la nostra debolezza e insieme la sua grazia. Lasciamoci vincere da Cristo. Lasciamoci vincere dal suo amore. Lasciamoci vincere dalla fede in lui.