V DI QUARESIMA o Domenica di Lazzaro - Gv 11, 1-53


Com’è possibile che si voglia uccidere uno che rianima i morti? Davvero si può decidere di eliminare uno che guarisce, uno che si prende cura di quelli di cui non gliene importa niente a nessuno? È davvero possibile che nel momento in cui Gesù fa uscire Lazzaro dalla tomba, è come se si scavasse la fossa da solo?

È evidente che è possibile e noi lo sappiamo, perché siamo al corrente di come sono andate a finire le cose. Ma la questione è: perché? Ed è una questione che ci riguarda, è una situazione che permane: perché tanto odio? Perché tante energie sprecate a volersi male? Da che cosa ci si difende uccidendo un profeta? Perché chi fa del bene è criminalizzato? Perché tanta diffidenza e dietrologia alla ricerca di un secondo fine?

Molti dei Giudei credettero in lui, ma alcuni andarono dai farisei e riferirono quello che Gesù aveva fatto… ecco li vedete gli spioni correre dai farisei e i farisei a loro volta a parlare con i Grandi sacerdoti e poi con il sinedrio…. C’è sempre un qualche “spione” nella vita, qualcuno che pensa di fare il grande sulla pelle degli altri e dobbiamo stare attenti. Ma forse anche costui è necessario perché accada quello che deve accadere.

Giovanni, uomo di fede, a distanza di tempo vede le cose con una sua profondità e scrive: Caifa, essendo sommo sacerdote profetizzò che Gesù doveva morire per la nazione; e non soltanto per la nazione, ma anche per riunire insieme i figli di Dio che erano dispersi.

Caifa profetizza, Caifa un profeta? Che è come affermare allora la “necessità” del male. Era necessaria la “ragion di stato” che ha messo in croce Gesù? Non siamo forse dinnanzi ad una accusa di facciata per nascondere la paura? Paura della reazione dei romani, paura di perdere l’ortodossia, paura di non avere più il controllo della situazione… Paura. Ecco la grande protagonista della storia, la paura spesso occulta e travestita, alla quale non viene riconosciuta nemmeno la dignità di essere chiamata per nome.

Giovanni ne ha viste tante nella sua lunga vita e ricorda quel giorno dell’arresto e della condanna dell’amico Gesù, ricorda le voci che correvano per le vie di Gerusalemme e di come sia lui che gli altri fossero terrorizzati all’idea che Gesù potesse essere tolto di mezzo. Anche loro con la paura di “perdere” Gesù. Tant’è che il gruppo dei discepoli rimane un poco sullo sfondo, ma con le idee chiare su quello che si debba fare, anzi su quello che non si dovrebbe fare: non si deve andare a Gerusalemme! Sarebbe la fine.

E poi abbiamo la famiglia di Marta, Maria e Lazzaro che vuole bene al Signore: sono legati a lui e nel momento del dolore avvertono l’esigenza e il bisogno dell’amicizia che come un balsamo lenisca le loro ferite.

Ed è molto bello che accanto ai discepoli in senso stretto, ci siano degli “amici del Signore” quali sono Marta, Maria e anche Lazzaro, che pur continuando a fare la loro vita di famiglia e di lavoro nel loro villaggio o città, sono legati a lui, gli vogliono bene e lui vuole bene a loro. Infatti Marta e Maria rimangono un po’ male per il fatto che Gesù non sia tempestivo, non arrivi in tempo.

Qualcosa accomuna questi discepoli e le amiche del Signore, oltre al fatto di volergli bene e di stare – sia pure in maniera diversa – dietro a Lui e sono le aspettative diverse che essi hanno nei confronti di Gesù, perché gli riconoscono la capacità di evitare la paura della malattia e della morte.

Quando Gesù viene a sapere della malattia di Lazzaro e decide di fermarsi ancora due giorni, sembra avere la situazione sotto controllo. In realtà poi di fronte alla tomba dell’amico scoppia in pianto, anzi è sconvolto (e)ta/racen) come un mare in burrasca.

Sappiamo da Luca che Gesù pianse su Gerusalemme (Lc 19, 41), ma qui Giovanni ricorre addirittura a un verbo per dire il pianto di Gesù (e)da/krusen) diverso da quello che aveva usato per descrivere il pianto di Maria sorella di Lazzaro (vv. 31.33) ed è un pianto inconsolabile.

Ecco Gesù non si chiama fuori dalle paure e dalle tensioni e nemmeno sta in mezzo ad esse con quell’impassibilità che potrebbe sembrarci virtuosa quando si fanno critiche, anzi le lacrime di Gesù sono un dono per noi: ci dicono la sua partecipazione e condivisione a livello umano. È il pianto di un uomo e di un amico. È la compassione per un’umanità spaventata e incapace di coraggio.

Se domenica scorsa ha guarito il cieco nato per permettergli di vedere e di scrutare un futuro diverso, oggi Gesù ci dice che gli occhi non servono solo per vedere, ma anche a piangere e verrebbe da piangere anche a noi insieme con lui, perché è vero che le lacrime aprono a una profondità contagiosa. Non puoi non piangere con chi piange.

Gesù piangendo per Lazzaro, piange ogni uomo, ogni donna, ogni bambino che muore. Piange i morti che non contano nulla. Piange per la morte del giusto e per la morte del malvagio.

Succede allora che gli occhi vedono meglio, parrebbe assurdo, ma è così, gli occhi che piangono vedono meglio e le lacrime diventano preghiera, la preghiera di Gesù, una delle poche che i Vangeli ci hanno tramandato. Lacrime che diventano preghiera capace di guardare oltre la morte, di vedere la promessa del Padre di una vita di cui la rianimazione di Lazzaro è solo anticipo, prefigurazione.

Lacrime di coraggio, dunque, lacrime che accolgono la paura e la trascendono in fiducia e in preghiera.

Ma non possiamo dimenticare anche un altro punto di vista, quello del povero Lazzaro, ed entrare con lui nel suo sepolcro, scendere nelle tenebre della morte, del non senso, dell’assurdità di una di quelle situazioni della vita nelle quali facciamo fatica a vedere una via d’uscita. Lazzaro non parla, Lazzaro è bendato mani e piedi, il volto protetto dal sudario… chiuso nella tomba, immobilizzato e sepolto. Eppure si può uscire anche da lì.

Giovanni scrive al v.44: Il morto uscì, i piedi e le mani legati con bende, e il viso avvolto da un sudario. Inutile chiederci come facesse a camminare se aveva i piedi legati, sarebbe chiederci come ha fatto Gesù a rianimare un cadavere? È curioso l’imperativo di Gesù rivolto ai presenti: «Liberatelo e lasciatelo andare!». Ma come, lui che lo ha richiamato dalla morte alla vita non poteva forse lacerare d’un colpo le bende? Non poteva spostare la pietra davanti alla tomba?

Il Signore ci dice che non basta nemmeno credere da soli, abbiamo bisogno di amici che se c’è bisogno piangano con noi e noi con loro. Amici che se c’è da spostare una pietra dal cuore, sono lì e se c’è bisogno di noi, noi ci siamo. Se c’è da togliere qualche benda, qualche faraone che ci tiranneggia… ci aiutiamo insieme.

Sì, il Signore ci libera e solo lui è capace di questo, ma non lo fa senza di noi. È davvero intrigante il nostro Dio: è capace di risuscitare i morti, ma poi ha bisogno degli amici per liberare i nostri cuori dalla paura e dall’odio.

Ripenso al coraggio di Simone, un ragazzo di 15 anni di Roma che di fronte al razzismo inferocito dei fascisti di Casa Pound, di fronte al pane calpestato destinato alle famiglie rom, ha un sussulto di dignità e di umanità da far vergognare gli adulti che erano lì inebetiti nel loro odio: «Secondo me nessuno deve essere lasciato dietro. Né italiani, né rom, né africani, né qualsiasi tipo di persona». Sono le sue parole.

Non è questo un gesto di risurrezione, di rinascita e di vita? Mi commuove che sia un ragazzo di 15 anni, così come lo è Greta di 16 anni, a ridarci il coraggio di non farci governare dalla paura, dall’ansia del controllo, dal capro espiatorio, ma di restare umani e di essere uomini e donne di risurrezione già da oggi.

(Gv 11, 1-53)