IV DOPO PENTECOSTE - Mt 22, 1-14


(Gn 18, 17-21; 19; 1 Cor 6, 9-12; Mt 22, 1-14)

Al solo sentire i nomi di “Sodoma” e di “Gomorra” la nostra mente corre subito a immaginare situazioni di depravazione e di corruzione, se non addirittura di malavita e di mafia, come ci ha raccontato un giovane scrittore contemporaneo nel libro omonimo.

Infatti anche il racconto biblico ci dice che fin dal tempo di Abramo il vizio e la depravazione, che sono il frutto di un cuore assetato di denaro, soggiogato dal potere e dal narcisismo, possano diventare un modo di essere, assurgere a cultura diffusa, addirittura da connotare una città e a costituire un sistema di vita, una «civiltà», se ancora può definirsi così un’umanità corrotta e depravata.

Chi di voi ha avuto modo di recarsi sulle rive del Mar Morto non può non essere rimasto impressionato dall’immagine di desolazione e di aridità di quel luogo. C’è una ragione scientifica che determina tutto questo ed è il fatto che il Mar Morto che si trova a 400 metri sotto il livello del mare, riceve acqua dal fiume Giordano ma non ha alcun emissario e man mano che l’acqua evapora, il sale vi si concentra a tal punto da rendere impossibile la vita. La sua acqua è, letteralmente, salamoia.

Il racconto biblico in termini tecnici è considerato eziologico, nel senso che vuole «spiegare» la ragione profonda per cui quel territorio attorno al Mar Morto fosse e lo sia tuttora così desolato.

Sta di fatto che Abramo arrivando dalle sue peregrinazioni non ha trovato ospitalità in un contesto simile, non è stato possibile per lui, per la sua grande famiglia, per i suoi servi e per le sue greggi avere una qualche forma di riparo e di ristoro.

Come abbeverare le persone e le bestie? dove trovare pascolo e dove trascorrere la notte per gente che pure era abituata a traversate di deserti e a superare difficoltà oggi a dir poco inimmaginabili? E poi, come può esserci un luogo simile sulla terra? A che cosa è dovuto?

La risposta scientifica, che pure ci pare naturale, non è sufficiente per l’uomo biblico e per l’uomo di fede. L’interrogativo si fa più profondo e intenso: come può l’Eterno che ha fatto bene ogni cosa permettere che ci sia un luogo così inospitale? La risposta biblica rinvia alla responsabilità dell’uomo, alla nostra libertà.

Vale a dire che se noi riceviamo il mondo come un dono di Dio e se accogliamo l’altro anch’egli come un dono (i primi capitoli di Genesi nelle due domeniche precedenti), la vita fiorisce e la fraternità umana è possibile. Ma nel momento in cui facciamo da padroni nel mondo, nel momento in cui l’altro non è più accolto come un dono, ma viene respinto o sfruttato… allora la nostra città, le nostre città sono degne di Sodoma e di Gomorra.

L’esegesi ebraica racconta che se un povero diavolo arrivava per sbaglio a Sodoma, all’inizio gli abitanti lo ricoprivano di oro e di argento, di ogni oggetto prezioso… ma gli negavano un qualsiasi forma di cibo, nemmeno un tozzo di pane e tantomeno un bicchiere d’acqua. Alla fine lo sventurato moriva di fame e, non appena aveva esalato l’ultimo respiro, i cittadini si precipitavano a riprendersi ciascuno il proprio oro che avevano in precedenza marchiato con il loro logo, non mancando di litigare in merito alla distribuzione dei vestiti del defunto che a quel punto veniva sepolto nudo!

Una tale crudeltà e perversione degli abitanti di Sodoma e di Gomorra pareva addirittura impossibile a Dio. Così dice all’inizio della lettura di Genesi: «Voglio scendere a vedere se proprio hanno fatto tutto il male di cui è giunto il grido fino a me; lo voglio sapere!». Dio stesso parrebbe non credere alla capacità umana di travisare il dono della creazione e il dono dell’altro e di arrivare a tal punto di depravazione.

Il panorama desolante del mare di sale su cui piove fuoco e zolfo costituisce un monito che anticipa l’esito del mondo che stiamo costruendo con gli egoismi di pochi e le avidità di chi non ha mai abbastanza. Come non vedere descritta qui anche la condizione della nostra società?

Ma non per questo dobbiamo indugiare al pessimismo. Il fatto che l’Eterno decida di scendere a vedere se proprio l’uomo sia capace di tanto, non è solo una finzione letteraria: con Gesù, il Signore non solo è sceso a vedere di che cosa siamo capaci, ma per condividere e per destarci dalla nostra indifferenza. Perché, ci dice Gesù, è con le nostre scelte e le nostre abitudini che possiamo custodire la terra come un giardino o renderla una landa desolata.

Quando l’uomo dimentica la condizione di creatura, di essere al mondo “gratis”, di essere cioè destinatario di un dono, come diceva il racconto della creazione; e quando dimentica che il dono è duplice, cioè che anche l’altro da me è un dono di Dio; quando, per dirla con l’immagine evangelica dell’invitato al banchetto che non ha l’abito che costituisce l’immagine – come dice il nome stesso – delle abitudini buone, cioè quando l’uomo si affaccia al banchetto della vita con l’arroganza e la bramosia di prendere per sé e non è vestito delle abitudini virtuose della sobrietà, della condivisione, della giustizia … allora non solo la sua coscienza e la sua vita sono un inferno, ma la stessa umanità ne paga un prezzo altissimo.

Forse non ce ne rendiamo conto appieno, ma è una questione vitale. Nelle letture questa urgenza si fa presente in continuazione.

Anche nel vangelo, si parla di banchetto, della gioia, della vita … ma su questa festa incombe l’indifferenza che incontriamo nell’atteggiamento dei primi invitati: Non se ne curarono e andarono chi al proprio campo, chi ai propri affari… E avete sentito cosa succede a costoro. L’indifferenza non permette di rimanere in una condizione di neutralità, come se ci si potesse chiamare fuori dalla responsabilità di come stiamo nel mondo, questa indifferenza è foriera di morte.

La morte viene vinta indossando l’abito proprio di Abramo, l’abito della fede e della giustizia che è il contrario di quegli atteggiamenti di cui parla Paolo scrivendo ai cristiani di Corinto: né immorali, né idolatri, né adulteri, né depravati, né sodomiti, né ladri, né avari, né ubriaconi, né calunniatori, né rapinatori erediteranno il regno di Dio.

Queste sono le abitudini, l’habitus, di morte che esercitano su di noi il loro fascino, dobbiamo riconoscerlo, perché fanno leva sulla dimensione più istintuale del nostro essere uomini e donne, sembrano appagare immediatamente la nostra voglia di felicità, sembrano suggerire la via d’uscita più facile dalla fatica quotidiana… ma, ammonisce la parola dell’Eterno, chi si volge indietro con nostalgia a queste abitudini, si veste di un abito di sale, di un abito di morte.

Preghiamo il Signore perché partecipando all’eucaristia, ci renda capaci di vestirci di umiltà, di giustizia e di amore, proprio come Abramo, nostro padre nella fede.