V DOPO PENTECOSTE - Lc 9, 57-62


(Gen 11, 31-12,5; Eb 11, 1-2.8-16; Lc 9, 57 62)

Ascoltando il racconto della partenza di Abramo, non possiamo non pensare a quanti figli di Abram (padre eccelso) e di Sarài (principessa) sono in movimento oggi nel mondo, sospinti da una promessa, da un domani migliore. Si contano di questi tempi circa 51 milioni di persone, pensate lo stesso numero del tempo della fine della seconda guerra mondiale, che, come scrive la lettera agli Ebrei, «non pensano alla patria da cui sono usciti e aspirano a una patria migliore».

La storia della famiglia di Abramo è una storia di migranti.

Già Terach, padre di Abramo, uscì da Ur dei Caldei in Mesopotamia con l’intenzione di andare nella terra di Canaan e si fermò a Carran, nell’attuale Siria,  quasi a metà strada tra Ur e Canaan.

Uscì,  dice il testo, da Ur dei Caldei, noi conosciamo questo popolo piuttosto come Babilonesi, i Caldei non sono così chiamati non prima del IX secolo a.C.. Perciò l’autore di Genesi tradisce un periodo diverso, si rivolge a una generazione ebraica che conosce l’esilio in terra caldea, nella Babilonia di qualche secolo più tardi da cui invitata ad uscirne, proprio come Terach, come Abramo.

Questa vicenda famigliare ha un impatto molto diretto sui lettori, nel senso che la vocazione di Abramo continua una storia iniziata prima di lui e non ancora conclusa; anzi forse mai conclusa!

Una storia appunto, un succedersi di generazioni, figli che diventano padri, che danno vita a intenzioni paterne. Non sappiamo  nulla di Terach, padre di Abram,  cui il Signore cambierà il nome in Abramo,  «padre di una moltitudine», eppure anche Abramo ha avuto un padre che lo ha generato e che gli ha insegnato qualcosa.

La prima prova di Abramo  è quella di lasciare Carran, la terra di suo padre… L’ultima prova di Abramo sarà il distacco dal figlio della promessa.

Abramo non parte da solo, parte con la moglie Sarai e il nipote Lot. Ma la moglie è sterile e questo complica la nostra storia per il fatto che Sarai non può generare figli e questo sembra dire che la storia è finita ancor prima che possa iniziare, perché non ha nessuno che la possa continuare. Non c’è storia senza generazione.

In questo contesto Dio parla ad Abramo. Da dove parla Dio? Come parla Dio? con quale voce, di grazia? Le domande incalzano, ma per la Scrittura non è importante saperlo, la cosa più importante è che uno ascolti Dio che parla.

Dio dice ad Abramo di andarsene: «Vattene dalla tua terra…». Più che un ordine, si tratta di un consiglio: «Vattene per te, nel tuo interesse». Il dativo è etico: «È meglio per te che tu te ne vada». “Ti conviene, per il tuo vantaggio, scrive il maestro Rashi, per il tuo bene”.

Sulle cose da abbandonare si insiste con una determinazione progressiva: dalla tua terra, dalla tua parentela, dalla casa di tuo padre. Come una richiesta che esige una gradualità progressiva.

Sulle cose invece da guadagnare c’è un’assoluta imprecisione, «Verso la terra che io ti indicherò». Abramo in effetti non sa dove va. Non conosce il futuro… eppure Dio parla da lì. Questo è il punto.

Vedete per noi non è difficile sentire nella nostra coscienza la voce divina che ci rimprovera il peccato, ed era stata l’esperienza del principio, appunto come era accaduto a Adamo. Dio parla così nel passato, in quello che abbiamo fatto di male.

È forse più difficile dare fiducia a un Dio che parla nel momento in cui vai incontro non al consenso, non al successo presente, ma come era accaduto a Noè, alla derisione degli altri.

Con Abramo è estremamente difficile credere che la parola di Dio abbia ragione quando chiede di lasciare il certo per l’incerto, di abbandonare la propria terra per una terra ancora invisibile.

Da dove parla il Signore? La voce di Dio viene dal futuro. Non è una voce che ricorda il passato, che induce a fare i conti con la nostra coscienza,  questo è compito nostro, non è nemmeno una voce che ti garantisce il presente… quella di Dio è una voce che viene dal futuro, è una vocazione. Scrive Michel de Certeau: «Io non sono niente, senza un avvenire che ignoro».

La voce di Dio viene dal futuro, da un futuro che si presenta come una benedizione, anzi se stiamo al testo di oggi la vocazione di Abramo è un’esplosione di benedizione, infatti il verbo benedire (brkh) ricorre almeno cinque volte in due versetti (vv. 2-3).

Una benedizione che si presenta anzitutto come un fatto personale, c’è una frequenza notevole di suffissi della seconda persona singolare: ti, tu, tuo, tua… Non si dà una benedizione che non sia legata a una persona.

Non solo, perché poi per sua natura la benedizione è diffusiva, essa è unica per un soggetto preciso, ma si diffonde progressivamente anche sugli altri, senza limiti: «In te si diranno benedette tutte le famiglie della terra» (v.3c).

Un midrash racconta, anzi paragona Abramo a un vasetto di olio profumato. Finché stava fermo, non se ne sente il profumo, ma una volta smosso dal suo posto, una volta scosso, effonde il suo profumo dappertutto.

Quello di Abramo è il movimento contrario al tentativo autocratico intrapreso dagli uomini per non disperdersi che va sotto il nome  di torre di Babele.

Quando gli uomini intesero radunarsi in una sola città per non disperdersi sulla terra… andarono incontro alla maledizione! Nei primi 11 capitoli di Genesi ricorre cinque volte il verbo maledire, con Abramo per la prima volta nella storia la benedizione viene da Dio su una famiglia di migranti.

E che Abramo non abbia una meta o che la meta gli resti sconosciuta è importante perché quello  che conta non è il termine del viaggio, ma ciò che succede durante il cammino, perché lungo la strada – che è la strada di ognuno di noi – vive di fede.

Rileggiamo alla luce della storia di Abramo,  i tre incontri di Gesù raccontati oggi nel vangelo di Luca.

Prima ancora di comprendere le esigenze etiche che derivano da quegli incontri, vediamo realizzate in Gesù le tre dimensioni del padre Abramo: Gesù non ha dove posare il capo, come Abramo, Gesù non avrà nemmeno un pezzo di terra, non possederà una casa. Perché se le volpi, cioè gli uomini che abitano il proprio territorio come Erode, già definito una volpe da Gesù (Lc 13,32), spadroneggiano sui di esso ma poi si rifugiano nelle loro tane. Così se gli uccelli del cielo, e qui Gesù pensa ai pagani, a coloro che trovano accoglienza sui rami del grande albero venuto su dal granello di senape che è il regno dei cieli (Mt 13, 32), sono coloro che vanno alla conquista delle terre degli altri.

Gesù invece non ha dove posare il capo, e quindi lo posa ovunque, perché la terra è di Dio.

E poi come già Abramo lasciò suo padre Terach per la terra promessa, così Gesù viene dal Padre non per prometterci una terra, ma perché annunciamo la sovranità di Dio, che Dio regna nel mondo, nella vita e nella storia.

Infine, la scelta di Abramo è stata una scelta non di ritorno, Abramo non è un nuovo Ulisse che ha trascorre l’altra metà della propria vita per tornare a casa, Abramo ha avuto fede in Dio ed è andato avanti. Come Gesù d’altronde che ha speso tutta la sua vita e non ha cercato per sé qualcosa che potesse ripagarlo, non si è voltato indietro, perché appunto Dio parla dal futuro.

Le tre richieste del Vangelo di Gesù, rimandano alle tre richieste progressive manifestate da Dio ad Abramo: la terra, la parentela e la casa del padre.

Diventano esigenze dolorose se rimaniamo ancorati al passato, ma se crediamo con Gesù che la voce di Dio è nel futuro, che c’è una chiamata non verso una terra promessa, ma verso il regno di Dio, allora andiamo avanti.

Se i 50 e più milioni di profughi nel mondo, fossero la benedizione di Dio?