V DI QUARESIMA o Domenica di Lazzaro - Gv 11, 1-53


audio 21 marzo 2021

Malattia e morte sono due poli del vangelo di oggi: la pagina di Giovanni inizia con la malattia e la morte di Lazzaro per concludersi con la condanna a morte di Gesù. In mezzo c’è una dialettica forsennata che sembra placarsi solo con le parole di Caifa: Voi non capite nulla! È meglio che muoia uno solo piuttosto che il popolo vada in rovina.

E già queste parole ci pongono l’interrogativo: ma chi è davvero malato?

Certamente c’è la malattia di Lazzaro, anche se non sappiamo di che cosa soffrisse l’amico di Gesù, e forse proprio per questo rappresenta l’immagine di tutti noi, di un mondo che soffre e che sta male.

Potremmo facilmente fare una diagnosi plurima dei mali della nostra umanità. In cima a tutti ci sta la pandemia da Covid e tutto quello che porta con sé: isolamento, sofferenza, paura…. Per non parlare delle ingiustizie e delle guerre o delle violenze sulle donne e sui bambini… e se poi non ci vuole molto per renderci conto che anche l’ambiente è malato, l’aria è inquinata, i fiumi, i mari… Insomma davvero il nostro mondo sta male.

Ma intorno a Lazzaro c’è anche una società, un popolo che non sta proprio bene. C’è una società malata, un’umanità febbricitante a causa delle lotte di potere, per le invidie, le calunnie, quanto odio! Quante energie sprecate per fare il male, se addirittura si arriva a pensare di fare il bene, uccidendo una persona! E sono uomini del tempio: Caifa che era sommo sacerdote quell’anno e che interviene affermando con sicumera, perché gli altri non capiscono nulla, che è meglio ucciderne uno, piuttosto che rovinare un popolo intero.

Insomma anche il tempio, anche la chiesa non sta proprio tanto bene. Non sto qui a fare l’elenco dei mali, ci vorrebbe un Rosmini contemporaneo per dire le piaghe che rendono sofferente il corpo di Cristo che è la Chiesa, che sono le chiese.

Prendiamo ad esempio la situazione del monastero di Bose che sta a cuore a tanti e per la quale spesso le persone mi domandano cosa stia successo, cosa sia accaduto. Anche perché la comunità di Bose ha segnato per lunghi anni la primavera del cattolicesimo italiano. È stata una di quelle esperienze che possiamo a ragione considerare un genuino frutto del rinnovamento conciliare. Io stesso ricordo con nostalgia le prime lectio nel fienile, che era diventata la cappellina dei primi monaci…

Oggi primo giorno di primavera, assistiamo all’appassire di un fiore, che è stato finora segno di un cristianesimo moderno, aperto, curioso, stimolante e ce ne duole di vederlo appassire così, perché sembrerebbe trascinarsi con sé le nostre speranze di rinnovamento e di un modo di essere cristiani diverso.

Se decido di condividere qualche riflessione, non è perché voglia entrare nelle questioni di merito, anche perché ogni settimana si aggiunge un pezzo, una notizia, un’informazione e non credo sia giusto farsi partigiani dell’una o dell’altra parte, piuttosto mi sembra che tutta la questione metta in evidenza una patologia della chiesa in generale.

Appunto una malattia che riguarda tutto il corpo ecclesiale, dai vertici al più piccolo gruppo, per cui quando c’è un problema si tende sempre ad affossare, a deviare, a nascondere. La patologia consiste nel ridurre la chiesa a una congrega clericale che tutto risolve nascostamente. Quando invece per vicende analoghe a quanto sta accadendo all’esperienza di Bose insorgono in ambito civile, i documenti sono pubblici.

In ambito ecclesiale è per contro ritenuto normale non poter conoscere, non far trapelare, non presenziare a processi, non accedere agli atti processuali… che è un problema di civiltà di notevole portata.

Tant’è che tutti possono vedere a cosa abbiano portato mesi e mesi di “segretezza”, di mezze rivelazioni da una parte e dall’altra. Non credo che sia né uno spettacolo civile né degno della chiesa di Cristo, ma non ritengo neppure che sia una responsabilità unicamente dei monaci e delle monache di Bose.

Che ci sia un processo completo ed equo, canonico o secondo l’ordinamento italiano, in forma di arbitrato o di vero e proprio procedimento con tutti i crismi del caso…. Non lo so, ma dovrebbe essere normale parlarne pubblicamente, alla luce del sole. Di che cosa si ha paura?[1]

È solo rispettando i diritti umani esistono fino in fondo che si può accedere alla verità, senza condizionamenti di alcun genere. E poi in ambito cristiano non dovremmo mai avere nulla da temere, nessun segreto da nascondere: è la verità, diceva il vangelo di qualche domenica fa, che rende liberi!

Prima di allora, ogni invito all’obbedienza è soltanto strumentale. In fin dei conti, è logica diabolica, nel senso letterale del termine, perché genera divisioni insanabili e irriconciliabili. Ed è una contro -testimonianza che nessuna bella predica o esortazione può far dimenticare, perché nel vangelo non sono le cadute a essere un problema, ma l’accettazione e la complicità con la tenebra che non consente alla luce di Dio di aiutarci a sollevarci e riprendere il cammino.

Perdonate se ho indugiato su questo aspetto, ma questo ancora una volta viene a dirci che abbiamo tutti sempre più bisogno di metterci in ascolto di Gesù, di ascoltare la sua parola perché ci restituisca la capacità di guardare la nostra vita malata con occhi diversi.

Gesù cosa dice e cosa fa di fronte al malato che è Lazzaro, di fronte al malato che è il mondo, di fronte al malato che è il tempio, la Chiesa? Non ha ricette per raggiungere il benessere individuale suggerendo qualche tecnica, non basta che ciascuno si ricavi uno spazio di tranquillità o un’oasi di pace, perché occorre uno sguardo altro, una comprensione di ciò che sarà ancora più evidente con la sua morte e risurrezione, ovvero che la vita non muore, che c’è una vita “eterna”, che è tale non solo dopo la morte, ma è già in noi, perché come dice Gesù: chi crede in me non morirà in eterno.

Finché consideriamo la vita come qualcosa da organizzare, da sistemare, da controllare, da gestire… saremo disposti a tutto, anche a passare sopra i diritti delle persone. Ma noi siamo immersi nella vita, come i pesci al mare, diceva Dante, nel senso che facilmente fraintendiamo la vita con la nostra biologia, mentre la lingua greca per dire la vita usa due termini diversi, ribadisco una cosa che in Giovanni abbiamo già incontrato, vale a dire bios e zōé.

La vita intesa come bios è la sua declinazione in ciascuno di noi, è la vita biologica di un individuo in questo mondo. La vita è biologia, ma la vita non è solo biologia. Per questo Giovanni parla di zōé che è da intendere come la vita che avvolge e riempie tutto: le persone, le pietre, le piante, gli animali, i pensieri e le emozioni, le intuizioni spirituali più sublimi e Dio stesso. È un principio vitale.

Lazzaro viene richiamato alla vita biologica, per cui prima o poi dovrà sperimentare ancora la morte, ma per Gesù quella morte è solo una specie di sonno, così dichiara all’inizio lasciando i suoi ascoltatori inebetiti: Lazzaro il nostro amico si è addormentato, ma io vado a svegliarlo. Non è un caso di morte apparente! C’è una vita che non è solo quella biologica, questa muore e si dissolve nella polvere, c’è una vita, zōé, che non muore. Mai.

La questione sta tutta qui: se noi imparassimo a custodire la vita che non muore e nella quale siamo immersi, se sapessimo agire, comportarci, pensare e trattare gli altri, la natura, il mondo con questa consapevolezza di partecipare a una vita che tutto avvolge e tutto comprende, guariremmo tante patologie delle nostre esistenze.

Ma non è così facile, infatti Gesù piange. Il pianto del Cristo è in primo luogo sicuramente dettato per il dolore di un’amicizia interrotta, per cui Gesù dà libero sfogo a quello che potrebbe essere il pianto di ciascuno di noi quando perdiamo un affetto, un legame.

Ma il pianto di Cristo ci dice un’altra cosa: forse proprio nel momento del pianto possiamo imparare a vedere meglio la consistenza della nostra vita. Parrebbe assurdo, ma è così, gli occhi che piangono vedono meglio perché le lacrime trasfigurano il dolore in preghiera. La preghiera è il ponte della sua relazione con Dio, che accende la luce sulla vita che non muore.

Lacrime che diventano preghiera capace di guardare oltre la morte, di vedere la promessa del Padre di una vita di cui la rianimazione di Lazzaro è anticipo, prefigurazione.

L’aveva ben intuito la grande poetessa Alda Merini che rivolgendosi a p. Turoldo, altro grande poeta di Dio, scrisse: E scoprirai quel giorno / che Dio fa una cosa sola: / disperde il nostro profumo / nell’infinito / per dare vita al Suo respiro[2].

(Gv 11, 1-53)

 

[1] Cfr. Riccardo Larini in Riprendere altrimenti del 19 marzo 2021

[2] Alda Merini, Padre mio p.102.