II DI PASQUA - In albis depositis - Gv 20, 19-31
… E noi che cosa dovremmo scrivere e raccontare affinché le nuove generazioni possano, per dirla con le parole di Giovanni, credere in Gesù e avere la vita? “Avere la vita nel suo nome”, questo è il tesoro che ci fa stare in piedi e ci permette di affrontare le traversie. Questo è ciò che più ci sta a cuore: Avere la vita nel suo nome. Ed è ciò che vorremmo trasmettere: la vita.
Come fare? Perché questo è il nostro dramma oggi e penso che ciascuno di noi se lo sia posto in un qualche momento. Non basta il catechismo, non è sufficiente la tradizione o meglio le tradizioni, ed è fragile seguire la via dei valori astratti e facilmente manipolabili.
Seguiamo l’esempio di Giovanni che prima ha scritto di Gesù e della sua grandezza, le sue parole e i suoi gesti e di questo gli siamo immensamente grati. Poi ha scritto, e anche di questo dobbiamo essergli grati, di loro, di chi lo ha seguito fin dalla prima ora, ha scritto della comunità di donne e di uomini che hanno amato Gesù… senza nulla togliere delle loro fatiche e incomprensioni, delle loro delusioni e delle loro incongruenze.
E ci ha fatto così capire che anche per i Dodici c’è stata una gradualità nel seguire il Signore, magari risuona ovvio, ma dobbiamo ricordarcelo, non si è immediatamente cristiani con il semplice atto di volontà, con la decisioni di diventarlo.
Basti pensare a Giuda, a Pietro e oggi a Tommaso, il cui nome significa gemello, doppio, e forse volutamente Giovanni non ci ha trasmesso il nome dell’altro gemello e questo succede spesso nei Vangeli perché chiunque possa considerarsi tale.
Comunque Tommaso la sera di pasqua non era con gli altri: chissà dove s’era cacciato per ingoiare la tristezza e l’amarezza della morte di Gesù.
Attenzione però, Tommaso non è l’ateo, l’agnostico con cui troppo facilmente lo identifichiamo. Tommaso era anzitutto un ebreo, un credente e poi uno dei Dodici, quindi del gruppo più vicino a Gesù, ne aveva ricevuto l’insegnamento e aveva potuto vedere i segni che aveva compiuto. Aveva assistito alle tensioni con i capi, infatti quando Gesù decide di andare a Betania perché Lazzaro è morto, con grande consapevolezza e lucidità afferma: andiamo anche noi a morire con lui! (11,16).
Se Giuda si era scontrato con un’idea messianica che non poteva accettare: Gesù non ha voluto sovvertire il potere, non ha voluto vincere l’ingiustizia con la violenza e le armi e questo Giuda non lo ha condiviso e alla fine ha ceduto alla delusione di non poterlo avere dalla sua parte.
Se Pietro aveva dovuto fare i conti con il suo carattere focoso e irruento per cui si aspettava un Gesù capace di uscire vincitore dal processo prima davanti a Anna e Caifa e poi davanti a Pilato. Nessuno avrebbe fatto un graffio al suo Maestro, c’era lui a difenderlo e comunque poteva risolvere la questione come solo lui sapeva fare.
Oggi vediamo Tommaso che di fronte alla fede della comunità che gli dice: Abbiamo visto il Signore! Resiste, recalcitra, dice tutte le sue perplessità.
Tommaso è figura di una generazione di discepoli che quando Giovanni scrive il Vangelo non c’erano alla Pasqua di Risurrezione. Tommaso è la voce dei lettori di seconda generazione del vangelo i quali ritenevano che i primi testimoni pasquali fossero dei privilegiati perché avevano potuto “vedere” e perciò non avevano “dovuto” credere, cui Giovanni risponde con la beatitudine che giunge fino a noi: Beati quelli che non hanno visto e hanno creduto!
Perché quel Tommaso assente la sera di Pasqua siamo noi: nessuno di noi era presente a quella Pasqua del 36 dell’era volgare. Ma Tommaso continua anche a dirci che ogni domenica, da quel giorno di Pasqua, la comunità trasmette a lui e a tutte le generazioni che seguiranno questo annuncio: il Crocifisso è vivo e noi lo abbiamo incontrato e anche voi potete incontrarlo.
E qui cominciano le domande, le questioni che raccoglierei in due gruppi, che sono due tipi di approccio anche alla fede, alla risurrezione, ma direi più in generale alla vita.
C’è l’approccio che dal XVIII secolo chiamiamo razionalismo e che ha posto una serie obiezioni e difficoltà. Per il positivista esiste solo un’unica realtà quella naturale, la realtà si identifica con quel che noi possiamo osservare, verificare e constatare con le nostre forze e i nostri strumenti.
In questa concezione della realtà non c’è posto il Dio biblico e per la risurrezione di Gesù. C’è posto solo per il nostro fare e al massimo, per le idee di Dio da noi costruite. L’esperienza della risurrezione dicono si è verificata esclusivamente nei processi dell’inconscio o della coscienza dei discepoli, processi che si sono condensati in visioni. Il razionalista pensa che a Pasqua si verificò soltanto la risurrezione interiore della fede dei discepoli nel Gesù storico. Niente di più.
Per contro il fondamentalista crede che tutto sia avvenuto così com’è letteralmente scritto nella Bibbia. Basti pensare al successo che ha, specie negli USA, il creazionismo, vale a dire credere davvero che la creazione sia avvenuta così com’è scritta in Genesi in sei giorni e nelle modalità letterarie descritte. Cosa del tutto incongruente e non necessaria tra l’altro alla fede.
Il fondamentalista dice anche che oggi noi dovremmo credere così la risurrezione di Gesù, vale a dire come un grande intervento miracoloso di Dio dall’alto che sospende il corso delle leggi naturali e rianima un cadavere. Se fossimo dinnanzi a un cadavere davvero rianimato, Tommaso effettivamente dovrebbe mettere le dita nelle ferite del Risorto… cosa che Giovanni si guarda bene dal dire.
Ora possiamo cercare di avvicinarci un poco di più al mistero che la Chiesa ci ha trasmesso nel Vangelo della risurrezione misurandoci con la cultura e il pensiero contemporaneo che dobbiamo imparare a guardare sempre con simpatia perché ci costringono a riformulare la fede, a non vivere di rendita, a non delegare al magistero la nostra responsabilità di discepoli.
Premesso che nessuno è stato testimone diretto dell’evento della risurrezione, nessuno ha potuto vederlo, anzi dirò di più: una telecamera installata nel sepolcro non avrebbe ripreso nulla.
L’evento della risurrezione non è da fraintendere come la rianimazione del cadavere, cosa che era avvenuta con l’amico Lazzaro, quello era appunto un segno, e il segno in quanto tale rimanda a una realtà più grande, profonda e misteriosa per le nostra capacità e per le categorie del nostro pensiero.
Non può essere un’entità empiricamente rintracciabile anche perché la risurrezione di Gesù essendo un evento reale tuttavia non è un evento da noi verificabile, essendo fuori dalla nostra portata è fuori dalla nostra capacità e disponibilità di mezzi atti a fare indagini in tal senso.
Tutto il NT sostiene la convinzione che Gesù ucciso non ha trovato la sua fine nella morte, ma è personalmente vivo in un modo del tutto nuovo, definitivo e indistruttibile. Senza questa convinzione gli apostoli e i discepoli non avrebbero nemmeno avvertito la necessità di tramandare l’attività e la morte di Gesù.
Gesù vive una vita nuova e indistruttibile presso Dio, vita che riguarda la persona nella sua individualità e nelle sue relazioni con il prossimo e con il creato, come Gesù vivente attesta nel suo entrare in relazione con Tommaso che si sente conosciuto dal Signore anche nella sua incredulità e poi con i discepoli che sono beati perché pur non avendo visto, hanno creduto!
Se è questo ciò che crediamo, se è Gesù vivente che si relaziona ancora oggi con noi, nella sua parola, nel suo sacramento, nel pane che spezziamo come comunità e nei fratelli e nelle sorelle in umanità… allora possiamo scrivere, per rispondere alla domanda da cui siamo partiti, dell’importanza delle relazioni, della cura e dell’etica della relazione che mostra come il vivere insieme possa essere preservato solo ricostruendo la capacità dell’io a riconoscere un tu. Ce lo impone la realtà, ogniqualvolta ci costringe a fare i conti con i drammi generati dall’indifferenza, dall’ebetudine e dalla crudeltà come quella che registriamo ormai ogni giorno.
Il Signore risorto cerca ancora dei Tommaso che possano fidarsi di lui e della sua Parola e che guardando le ferite che nella storia del mondo continuano a significare il prezzo dell’amore, possano dire: Mio Signore e mio Dio.
(Gv 20, 19-31)