II DI PASQUA - In albis depositis - Gv 20, 19-31
(At 4, 8-24; Col 2, 8-15; Gv 20, 19-31)
Non è stato facile per i discepoli accogliere l’annuncio della risurrezione di Gesù. Nonostante Pietro e Giovanni avessero visto il sepolcro vuoto, nonostante Maria di Magdala avesse avuto l’incontro col Cristo, i discepoli la sera di quel giorno, il primo della settimana sono chiusi nel cenacolo per paura dei Giudei. La paura abita il giorno di Pasqua, la paura non abbandona mai la nostra vita, viviamo e conviviamo con le nostre paure. È per questo che chiudiamo e spranghiamo le porte, non solo quelle di casa, ma anche quelle del cuore e della mente, della nostra stessa vita.
Già sarebbe importante dare un nome alle nostre paure, chiamarle con il loro nome, perché se non siamo noi a governarle, sono loro a governare noi e a farci regredire e ad avvitarci su noi stessi. Noi tutti siamo un po’ come Tommaso, certo lui non è chiuso nel cenacolo insieme con gli altri, sembrerebbe essere uno spavaldo, uno sicuro di sé… ma in realtà il suo nome che in aramaico si dice Toma’ (in greco «Didimo») significa: il gemello, il doppio. Tommaso è il nostro gemello, il nostro doppio perché in lui, come in ciascuno di noi abita il credente e il non credente, la fede è un intreccio di paura e di dubbio.
Qual è la risposta del Cristo a questa paura? Nel vangelo di oggi abbiamo due gesti.
Anzitutto la triplice insistenza sulle ferite di Gesù: all’inizio è Gesù stesso che le mostra, poi è Tommaso che le esige come prova, e alla fine è Gesù stesso che le mostra a Tommaso. Perché Gesù presentandosi vivo, perfettamente integro, con un corpo che può passare attraverso le porte chiuse, conserva questi segni della sua debolezza, della sua mortalità, della sofferenza?
Molto più semplicemente, nessuno di noi che abbia subito un’operazione chirurgica ne conserva volentieri le cicatrici, anzi il chirurgo stesso cerca di fare in modo che non si vedano, o che almeno possano scomparire nel tempo.
Come mai allora Gesù, conserva nel suo corpo il ricordo di questa violenta sofferenza, che segna il suo fallimento, il suo essere stato respinto?
Le ferite di Gesù visibili dopo la risurrezione dicono che il Risorto non è la rivincita di Dio sulla sofferenza e sulla morte. La risurrezione non diventa un modo di guardare la croce come se fosse stata solo un brutto momento da dimenticare, un incubo dal quale ci si risveglia e poi si constata con sollievo che fortunatamente è stato soltanto un brutto sogno.
Il Cristo risorto portando ancora su di sé i segni della passione, non li cancella come nelle favole, ma ce li ricorda costantemente perché dicono la via necessaria, sono il segno dell’amore che vince il male con il bene. Il fianco del Cristo, quel fianco che fu trafitto, da dove scaturì sangue ed acqua è la ferita d’amore di Dio da cui siamo nati, ed è la ferita che ci genera da cui fluisce la pace e la gioia.
Contemplando queste ferite conosco chi sono io per Dio e chi è Dio per me. Dio è colui che per me porta quelle mani inchiodate e quel fianco trafitto. Lui è così per me, io chi sono per lui? Sono oggetto del suo amore infinito. Ed è qui che incontriamo la pace che Gesù dona. Gesù non augura la pace, non la auspica, ma la dona, così che Tommaso arriva a dire: Mio Signore e mio Dio!
In secondo luogo, il Signore compie un gesto particolare: «Soffiò e disse loro ricevete lo Spirito Santo e perdonate i peccati». Gesù non rinfaccia ai suoi i pur evidenti peccati: tradimento, rinnegamento, paura… sono stati dei vigliacchi di per sé. Ma il Signore avvolge della sua tenerezza e del suo amore le ferite di quell’amicizia e quell’affetto che li avevano legati insieme. La comunità dei discepoli, ferita dal tradimento, dal rinnegamento e dalla paura e perdonata, è la Chiesa mandata per il soffio dello Spirito Santo a sua volta a perdonare i peccati, a prendersi cura della fragilità dell’uomo, come ha fatto il suo Signore. Essa è mandata a operare al livello più profondo delle coscienze umane, che è la liberazione dal peccato. E come può ancora oggi la comunità dei discepoli liberare l’uomo dal peccato? Avvolgendo l’uomo di quell’amore e di quella tenerezza che il Signore le ha dato di sperimentare su di sé!
Ed è ciò che fa la comunità descritta negli Atti, nella prima lettura. È una chiesa che agisce nel nome di Gesù. Sappiamo che nell’ebraismo “il nome” è una perifrasi frequente per designare l’Eterno stesso il cui nome è impronunciabile. Il nome non è una formula magica, non è il pronunciare il nome che salva, ma il fidarsi di lui. In questo senso l’insistenza di Pietro sull’agire nel nome di Gesù tende a sottolineare che nella vita della Chiesa il protagonista non è Pietro, non sono gli apostoli, né i credenti in generale, bensì Gesù stesso, colui che è stato crocifisso.
Quindi una chiesa non centrata su sé stessa, ma che si appoggia al nome di Gesù. Una chiesa povera e serva, come va ripetendo papa Francesco, che si appoggia solo al nome di Gesù sarà capace di quella libertà e di quel coraggio che il libro degli Atti chiama parresìa, cioè quella franchezza che non è mai arroganza, né supponenza, ma consapevolezza che ad agire in mezzo alla comunità è il nome di Gesù, è Gesù risorto e non le nostre strutture, le nostre capacità, i nostri denari a salvare.
E questo non è mai stato facile: fin dall’inizio la chiesa ha vissuto la tentazione di darsi una sapienza altra, di farsi una spiegazione ragionevole di fronte alla croce e alle ferite del Risorto. Ce lo testimonia un altro spaccato di Chiesa nella lettera che Paolo scrive ai cristiani di Colossi, una città della Frigia, attuale Turchia. Siamo negli anni 61-63, Paolo non scrive quelle parole a tavolino, come se stesse facendo della teologia per corrispondenza, infatti è prigioniero a Roma.
Ed è in quelle condizioni che quando gli riferiscono che i discepoli di Colossi cominciano ad appoggiarsi su idee diffuse circa presunte potenze e forze occulte (qui ricorre l’unica volta nel NT il termine filosofia, ma da intendersi come speculazione religiosa) Paolo afferma: non abbiamo bisogno di speculazioni religiose perché è Gesù, è il Cristo il nostro riferimento stabile come pietra angolare.
Il rapporto con Cristo è così intenso che Paolo addirittura arriva a coniare in greco dei verbi nuovi per dire il legame indissolubile tra il discepolo e il Signore: Se siamo «consepolti» con Cristo nel battesimo insieme a lui «conrisuscitiamo».
È in questo legame profondo che Paolo trova la pace necessaria per affrontare la prigionia e nel quale anche noi possiamo affrontare le prove e le paure della vita.
Ed è quello che chiediamo nella celebrazione di oggi: nelle ferite che sperimentiamo ogni giorno, sii tu Signore la nostra pace. Fa’ che la tua chiesa povera e serva non si ammali di protagonismo, ma agisca sempre e solo nel tuo nome camminando sulla strada necessaria.