IX DOPO PENTECOSTE - Mc 8, 34-38


(2 Sam 6, 12-22; 1 Cor 1, 25-31; Mc 8, 34-38)

Chi si vergognerà di me e delle mie parole… dice Gesù, anche il Figlio dell’uomo si vergognerà di lui… nella gloria del Padre suo…

Che si provi vergogna quaggiù nelle nostre relazioni è abbastanza comprensibile, ma che questo sentimento che avvertiamo come sgradevole, possa essere possibile anche nel regno di Dio, nella metastoria, ci appare un poco improbabile e poi che sia il Signore ad avere vergogna di noi, ci pare del tutto fuori luogo.

Eppure a ben guardare oggi la vergogna sembra segnare molto la vita specie delle giovani generazioni, a discapito del senso di colpa che sembra caratterizzare le generazioni del passato che infatti avvertivano fortemente la consapevolezza di aver trasgredito una regola o una norma, anche se tenevano questo stato d’animo in genere circoscritto nell’intimo della propria coscienza.

Anche la vergogna appartiene all’ampio repertorio dei sentimenti umani di sempre. Chi non ha provato quel senso sgradevole di disapprovazione e di squalifica, smascherati dallo sguardo dell’altro … con il conseguente desiderio di sparire, di sprofondare, di diventare invisibili, anche solo per nascondere il rossore del viso?

Ma oggi in particolare la vergogna sembra segnare maggiormente le relazioni, si è molto più condizionati dal parere e dal giudizio degli altri che non poche volte fa star a disagio e verrebbe da sottrarsi agli sguardi inquisitori di coloro che credevamo fossero amici e che invece si rivelano così profondamente bisognosi di umiliarci magari anche solo per apparire più sicuri a se stessi.

Quando nella prima lettura Mical rimprovera Davide non lo fa perché preoccupata della brutta figura che il re potrebbe, secondo lei, aver fatto ballando mezzo nudo intorno all’arca dell’alleanza … Questa è la motivazione apparente, ma come spesso accade, quelle parole dicono una cosa, ma il messaggio è altro perché in realtà se andiamo a vedere il suo stato d’animo scopriamo qual è il sentimento che predomina dentro di lei.

Infatti il cuore di questa donna è pieno di frustrazione e di rabbia perché suo padre Saul, il primo re d’Israele di cui era figlia, l’aveva data in moglie a Davide, ma questi quando sia Saul che il figlio Gionata morirono senza lasciare eredi se ne guardò bene di dare figli a Mical, perché in quel caso sarebbe stata lei la regina in assoluto più importante anche di Davide, in quanto discendente diretta da Saul.

Ma Davide non ci pensava nemmeno ed è questa frustrazione che si porta dentro che le fa rimproverare a Davide di non sapere fare il mestiere del re, cosa che lei presumeva di saper fare, invece il re non si vergogna di fare della sua vita una danza intorno all’arca del Signore.

E Davide vestito con un efod, ovvero con un perizoma di lino che era l’abito tradizionale dei sacerdoti egiziani del tempo, sembra voler affermare che se è vero che lui è re, è anche vero che è il sacerdote del suo popolo e la sua danza è una danza religiosa per ottenere da Dio la benedizione per il suo popolo e per la sua casa. Infatti dopo la danza intorno all’arca i capi famiglia tornano a casa, come Davide, per benedire la propria famiglia.

La danza di Davide esprime una aspetto importante della fede d’Israele: seguire l’Eterno è sorgente di vita, di gioia, di prosperità e di benedizione.

Invece la vergogna – e tutti i sentimenti repressi che porta con sé – è sterile. Infatti il versetto finale del passo di oggi, con cui si chiude il capitolo e che è stato omesso, recita così: «Mikal figlia di Saul, non ebbe figli fino al giorno della sua morte» (v.23). La vergogna è mortifera, la vergogna è sterile, perché nasce sempre da una doppiezza di cuore, da una intima ambiguità  che facciamo fatica ad accettare. Infatti molte volte i rimproveri che facciamo agli altri, le chiacchiere invidiose che stigmatizzano i comportamenti di chi ci è intorno nascono da un cuore ferito, amareggiato dalla frustrazione delle nostre aspettative, dei nostri desideri inconfessati di emergere, di dominare, di essere re e regine a nostra volta…

Quando diciamo che Gesù è «figlio di Davide», con la teologia affermiamo la sua discendenza regale, messianica, davidica appunto, e in questo senso nel Nuovo Testamento Gesù viene chiamato figlio di Davide dalla Cananea, da Bartimeo cieco, dalla folla alla salita a Gerusalemme (Mt 9,27; 15, 22; 21, 9; Mc 12, 35-37)], ma non dimentichiamo la danza di Davide intorno all’arca dell’alleanza.

Non sappiamo se il Cristo abbia mai ballato, ma è certo che non si è mai vergognato della sua vita, delle sue scelte, della sua fedeltà, anzi potremmo dire che Gesù proprio come Davide è stato libero di danzare la sua vita per Dio, per il Padre.

Pensate se anche noi imparassimo a vivere il nostro cristianesimo come una danza! E non crediamo che questa sia un’immagine superficiale, perché per danzare la vita secondo il Vangelo occorre imparare dal Signore le regole della danza, ovvero a «rinnegare se stessi, prendere la propria croce e seguirlo».

Vi sembrerà paradossale legare queste parole alla danza, eppure quello che è in gioco non è la nostra capacità di seguire Gesù, non sono parole per dire lo sforzo sovrumano che dobbiamo compiere, ma sono il modo di intendere la sequela.

Rinnegare se stessi e prendere la croce per seguire Gesù sono i verbi della danza: vuol dire non imporre il proprio ritmo e il proprio tempo, ma significa abbandonarsi fiduciosi a quelle braccia che danno l’andatura e il passo. Significa assecondare i movimenti secondo la musica del Vangelo e non secondo i nostri criteri e intuizioni.

Facciamo della nostra vita una danza quando accettiamo che il Signore ci faccia fare un lavoro scomodo con gioia, quando dobbiamo sopportare un dolore con fiducia, quando dedichiamo ascolto e attenzione a qualche rompiscatole, quando guardiamo con benevolenza un contrattempo che ci fa ritardare… anche se chi sta intorno magari giudica sciocco il nostro agire e ci considera incapace di farci valere.

Facciamo nostra la preghiera che Madeleine Delbrêl (1904-1964) una delle più grandi mistiche del secolo scorso, scrisse proprio a partire dal passo della danza di Davide (Il ballo dell’obbedienza):

«Penso che tu Signore forse ne abbia abbastanza

della gente che, sempre, parla di servirti col piglio da condottiero,

di conoscerti con aria da professore,

di raggiungerti con regole sportive,

di amarti come si ama in un matrimonio invecchiato.

Un giorno in cui avevi un po’ voglia d’altro

hai inventato san Francesco,

e ne hai fatto il tuo giullare.

Lascia che noi inventiamo qualcosa

per essere gente allegra che danza la propria vita con te.