II DOPO L’EPIFANIA - Gv 2, 1-11
Nm 20, 6-13; Rm 8, 22-27; Gv 2, 1-11
Le tre letture della parola di Dio ci aiutano a vivere questa domenica con una grande ricchezza di significati, in quanto è la domenica che cade nella settimana di preghiera per l’unità dei cristiani; è domenica che coincide anche con la 100a Giornata mondiale del migrante e del rifugiato … È anche la domenica delle «nozze di Cana», della trasformazione dell’acqua in vino, di quella trasformazione necessaria che solo il Signore può operare, ma non senza di noi.
La lettura del libro dei Numeri ci ricorda l’episodio di Meriba (contestazione), quando il popolo sotto la guida di Mosè e di Aronne, prima di arrivare al Sinai, si ribella e contesta il Signore: il cammino nel deserto è duro, difficile, faticoso, manca anche l’acqua! Pur sapendo che è il cammino necessario per passare dalla schiavitù alla libertà, è difficile fare i conti con tutte le difficoltà che si incontrano.
In questo senso il popolo biblico è il popolo migrante per eccellenza. La stessa esperienza di fede viene descritta come cammino, come itinerario… perché questa è la condizione di ogni persona da sempre, di essere homo viator. Perché? Ogni uomo, ogni donna, la stessa famiglia umana spera e cerca un futuro migliore, ma la strada per raggiungerlo va pensata e vissuta insieme e non ciascuno per suo conto.
Papa Francesco nel messaggio per la giornata di oggi scrive che «se da una parte le migrazioni denunciano spesso carenze e lacune degli Stati e della Comunità internazionale, dall’altra rivelano anche l’aspirazione dell’umanità a vivere l’accoglienza e l’ospitalità che permettano l’equa condivisione dei beni della terra, la tutela e la promozione della dignità e della centralità di ogni essere umano».
Non è facile per noi guardare a questi fenomeni con speranza, anzi dimenticando di essere a nostra volta figli di migrazioni avvenute in tempi e in periodi più o meno lontani, guardiamo ai migranti nel segno del peccato e non della grazia, sostituiamo alla solidarietà e alla fraternità la diffidenza, la chiusura, il rifiuto, la discriminazione, lo sfruttamento. Ogni giorno ascoltiamo voci sguaiate che gridano in nome della salvaguardia di una cultura, di un’identità, per la precedenza sul lavoro, per la sicurezza, per lasciare fuori dalle porte dei nostri Paesi persone e famiglie in fuga.
Ma per preparare un mondo migliore servono parole e gesti che segnino un cambiamento culturale. Guardando i volti dei migranti e dei rifugiati, i volti di cui tutti abbiamo davanti i segni nei numerosi sbarchi a Lampedusa e nei porti della Sicilia, della Calabria e della Puglia nel 2013, i volti di oltre 40.000 persone, uomini e donne, bambini e famiglie, costretti ad abbandonare le loro case per varie ragioni, per loro – scrive papa Francesco – «non possiamo non volere qualcosa di più».
Anche Mosè e Aronne non sapevano come dissetare il loro popolo, le loro famiglie, uomini, donne e bambini nel deserto… Nella traversata del deserto l’esperienza più drammatica è la mancanza di acqua, si può anche non mangiare per alcuni giorni, ma senza acqua è impossibile vivere. La prima cosa che si fa è prendersela con i capi.
Eppure la fede in Dio ha fatto scaturire acqua dalla roccia! Mosè toccando con il bastone la roccia ha dato acqua alla sua gente, come a dire che non c’è indurimento che possa resistere all’amore di Dio. Dio può far scaturire acqua dal nostro cuore indurito. Anche se siamo ammalati di sclerocardia, di paura, di diffidenza… questo cuore dell’occidente se si lascia toccare davvero dalla fede, da questo cuore possono scaturire parole e atteggiamenti per un mondo migliore: incontro, dialogo, ospitalità, tutela, condivisione, rispetto delle differenze. Già come ai tempi di Mosè, anche questo è un miracolo che può ripetersi con la bellezza della fede.
Nella seconda lettura, come a continuare questo tema dell’esodo della famiglia umana, Paolo scrivendo ai cristiani di Roma, ricorre all’immagine delle doglie del parto di tutta la creazione… tutta l’umanità, tutta la creazione cammina con fatica e dolore verso la realizzazione di una nuova creazione, di una nuova famiglia umana, più giusta, più bella, più libera. In queste doglie riconosciamo anche il cammino verso l’unità delle Chiese cristiane. Come potrà infatti darsi una famiglia umana più unita e solidale, se noi stessi discepoli di Cristo, siamo divisi nel suo nome? Questo è il paradosso e lo scandalo della vita cristiana.
Il testo della settimana (preparato dai cristiani del Canada) ricorre alle parole di Paolo che dice: Cristo non può essere diviso! Infatti nella comunità di Corinto c’era chi dichiarava: «Io sono di Paolo»; altri dicevano «Io sono di Apollo»; altri ancora: «Io sono di Pietro»; e qualcuno ancora: «Io sono di Cristo»! «Ma Cristo non può essere diviso» conclude Paolo, come si può utilizzare Cristo per sancire le nostre divisioni?
Cristo non può essere diviso perché se segui lui, se lo conosci e lo ami, allora non puoi non fare tuoi i suoi sentimenti e atteggiamenti. Infatti Paolo richiama la comunità di Corinto dicendo a chi cerca i carismi più eclatanti: guarda che l’amore è la cosa che conta di più (1 Cor 13). A chi si crede forte nella fede, Paolo ricorda che il Signore che è forte nella debolezza (2 Cor 12). A chi vuol raggiungere le più alte vette della spiritualità, Paolo ricorda che lo Spirito del Signore agisce nel cuore di ognuno (1 Cor 12).
La divisione del Cristo dunque sta ad ammonirci che siamo lontani, tutti e non solo gli altri, dal vivere il Vangelo.
Cosa possiamo fare? Quale passo possiamo compiere anche noi, per un ecumenismo dal basso tanto fragile, quanto necessario? Se stiamo a guardare le nostre possibilità e le nostre politiche ecclesiali e diocesane l’unità rimane una chimera… nelle doglie di una nuova umanità e di una possibile unità delle Chiese cristiane, accogliamo l’invito di Paolo e preghiamo, invochiamo lo Spirito che «viene in aiuto alla nostra debolezza». Quella debolezza che viene dalla consapevolezza di quanto male abbiano fatto al Vangelo l’orgoglio e l’egoismo, le polemiche e le condanne, il disprezzo e la presunzione e da questa debolezza invochiamo lo Spirito che solo può guarire i vincoli feriti della comunione.
Non solo, ma c’è un altro modo con cui possiamo stare nelle doglie della storia umana, ed è quello che ci viene suggerito dal vangelo di Giovanni con il racconto del primo dei segni di Gesù che ci ricorda come sia sempre urgente e necessario il miracolo di trasformare l’acqua in vino. A me pare di riconoscere in quelle sei anfore di pietra piene di acqua il peso enorme delle lacrime di tanti migranti, il peso enorme della mancanza di casa e di lavoro per tante persone e per numerosi rifugiati… il peso scandaloso della divisione dei cristiani.
Ecco come reagiamo di fronte a queste giare di acqua? Possiamo appunto difenderci, avere paura, reagire sguaiatamente o con indifferenza, far finta di niente, guardare dall’altra parte… Invece di fronte alla mancanza di vino, alla mancanza di gioia, alla mancanza di speranza – perché la festa poteva finire in un disastro – Giovanni ci racconta l’atteggiamento di Maria. Maria dice poche parole a quei servi che, come noi, non sanno cosa fare: Qualsiasi cosa vi dica fatela!
Maria partecipa del momento d’imbarazzo, di difficoltà… non dice queste parole in un momento di entusiasmo e di gioia, e soprattutto non fa come noi che in occasio¬ni simili, ci indispettiamo e ce ne laviamo le mani, lasciamo che le cose vadano come devono anda¬re. Maria non si indispettisce, non si impermalisce, ma per¬severa. Le parole di Maria nascono da un’inclinazione profonda del cuore e sono parole in perfetta coerenza con il «sì» dell’Annunciazione. Nell’atteggiamento di Cana sta tutta lei. Tutta la sua vita è stata infatti un grande «sì» al Signore, pieno di gioia e di fi¬ducia. Maria ha vissuto tutta la sua vita in una totale apertura a Dio anche nei momenti più difficili fino al Calvario, ai piedi della croce.
Qui, a Cana, il «sì» di Maria si traduce con la frase: Qualsiasi cosa vi dica, fatela! Questo non significa che lei sappia già da prima che cosa Gesù potrà dire ai servi. Anzi non sa se Gesù compirà un miracolo, se li manderà a comperare del vino o se si organizzerà in modo diverso, non sa niente… Sa che il Signore troverà una via d’uscita. Questa è la sua speranza. Nel cuore di Maria che pronuncia quelle parole, c’è la certezza che bisogna affidarsi a Dio, c’è la grande spe¬ranza che non delude, perché Gesù è la via di uscita dalle situazioni apparentemente chiuse della storia, Dicendo: «Qualsiasi cosa vi dica, fatela» trasmette ai servi la cer¬tezza che Dio dirà pur qualcosa, che Dio non ci lascia mai senza una via d’uscita.
In realtà, noi disperiamo spesso di trovare una prospettiva. Di fronte a problemi appunto come le migrazioni dei popoli, le condizioni dei rifugiati, le divisioni dei cristiani… facciamo fatica a viverle con la stessa fede di Maria. Se ci pensiamo bene appunto anche Maria poteva in quel momento a Cana far finta di niente, invece non solo si interessa, ma non si mette nemmeno a discutere di chi sia stata la colpa per la mancanza del vino, non avvia un’indagine per studiare attentamente il problema, per cer¬carne le cause, ma il suo è l’atteggiamento di un amore concreto e semplicemente dice: Qualsiasi cosa vi dica, fatela.
È la fiducia nella parola di Gesù che può trasformare le enormi giare di acqua della nostra umanità e della nostra Chiesa. Preghiamo perché il Signore possa trovare ancora servi che si lascino toccare il cuore e si rendano disponibili a fare quello che il Vangelo dice.