ULTIMA DOPO L’EPIFANIA detta "del perdono" - Lc 15, 11-32
(Rm 8,1-4; Lc 15, 11-32)
Di fronte a pagine di vangelo come questa dobbiamo chiedere a noi stessi di avere una mente e un cuore liberi così da ascoltarle come se fosse la prima volta. Questa parabola infatti è così famosa che basta ascoltare l’incipit e sappiamo subito come andranno a finire le cose, ma abbiamo detto che è «parola del Signore» e il Signore non è mai noioso, piuttosto è sorprendente, è capace di prenderci in contropiede.
Il racconto potrebbe sembrarci semplicemente edificante: un figlio scapestrato che vive da asòtos, dice il greco, cioè da scialacquatore, da spendaccione, che pensa solo a divertirsi, quando finisce i soldi, torna a casa. E il padre anziché prenderlo a calci come sarebbe opportuno, gli corre incontro, fa festa e lo reintegra a pieno titolo nella vita di famiglia.
Immaginiamo cosa sarebbe successo in una delle nostre case… quante ore passate a discutere tra il padre e la madre a rimbrottarsi l’un l’altro: ecco è colpa tua, l’hai viziato, gliele hai date vinte tutte… E per contro la moglie al marito: se tu lo ascoltavi di più, se passavi più tempo con lui, se gli davi qualche gratificazione… Senza parlare delle notti insonni, piene di angoscia e di preoccupazione: «Dove sarà andato, con chi sarà, come se la caverà…». Insomma, troviamo nella trama del racconto un poco di noi.
Ma non solo. Vorrei farvi notare alcuni particolari che ci possono aiutare a cogliere quale sia il Vangelo, la buona notizia di Gesù. Il primo particolare è che nella parabola la madre non c’è. Eppure avrebbe dato un bel contributo drammatico alla vicenda. Invece Gesù con grande finezza dice che quest’uomo è un padre speciale: ha un cuore di madre. Sapete che Rembrandt nel famoso quadro disegna il padre con una mano maschile e una femminile, per dire che il Dio di Gesù, il Dio annunciato nel vangelo è un Dio che ha creato tutto, che è somma sapienza, che è eternità, ma è anche un Dio che si commuove. Infatti Luca per dire la reazione del Padre nei confronti del figlio che ritorna, riprende la stessa coppia di verbi che abbiamo incontrato nella parabola del Samaritano: vide e si commosse.
Già questo ci fa pensare che non dobbiamo dare per scontata l’idea di Dio che riceviamo dalla nostra educazione, quell’idea che abbiamo in testa, anzi più che un’idea dovremmo averlo nel cuore, è un Dio che ci ama e che puoi amare. Ma non siamo abituati a pensare che Dio per amarci voglia che noi osserviamo le sue regole? Che Dio, altro che commuoversi, è esigente e vuole da noi una serie di comportamenti e se non li rispettiamo è pronto a castigarci!
Questa è anche l’idea che i due figli hanno del padre. Entrambi pur comportandosi in modo davvero diverso, nel cuore sono uguali, hanno col padre lo stesso rapporto di paura, di schiavitù. Nessuno di loro due è contento dell’idea di Dio che si portano dentro e non sappiamo fino a che punto davvero lo amino, o piuttosto lo temano.
Pensate ad esempio che il primo figlio si sia pentito e sia spinto dall’amore per il papà e la mamma? Cosa dice al v.17: Allora rientro in sé e disse: Quanti salariati di mio padre hanno pane in abbondanza e io qui muoio di fame! Non si parla di conversione, al contrario, queste parole dicono il suo calcolo astuto e meschino nel quale il padre è ridotto al ruolo di potenziale datore di lavoro, né più né meno come lo straniero padrone dei porci al cui servizio si trovava, con l’unica differenza che è in grado di offrire condizioni migliori.
Ma anche l’altro figlio, il maggiore, in fondo quando il padre lo invita a entrare alla festa non fa altro che rinfacciargli tutto quello che ha fatto… ti servo da anni, non ho mai disobbedito…non ti chiedo il vitello grasso, ma almeno un capretto per far festa con gli amici! Il peccato del giusto è quello di pensare di poter comprare l’amore di Dio. Questo è il peccato di tutte le religioni: comprarsi Dio con le opere buone. È come se un figlio debba meritarsi l’amore dei genitori. Ma che amore è? O è amore gratuito o non è amore e un figlio così sarà eternamente infelice. Dio non è venuto per mandarci all’inferno, ci andiamo già da soli! Gesù è venuto per salvarci dall’inferno.
Il primogenito storicamente è la figura di Israele, ma dal punto di vista teologico è il giusto di ogni religione che tra l’altro vive infelice, almeno il più giovane un poco se l’è goduta le libertà, mentre lui pensa che Dio sia un tiranno e di essere al mondo solo per lavorare e faticare.
Questa è anche l’acredine degli scribi e dei farisei che non si davano pace per il fatto che Gesù andasse a casa dei peccatori e che si intrattenesse con le prostitute. Ed è appunto la religione di sempre: Dio è giusto se premia i buoni e castiga i cattivi. Tutte le religioni dicono questo. Dio è padrone di tutto, è legislatore, è giudice che vede tutto e vede dentro… ma è anche boia perché ti condanna e ti punisce.
Se consideriamo le cose dal punto di vista di Dio, questa è la sua tragedia. Infatti l’ateo cosa fa? Nega questo Dio, cerca la libertà, ma non perché è cattivo… perché vuole fare una vita umana e non una vita da schiavo. L’ateismo, perlomeno un certo ateismo, è figlio di questa religione. Il rifiuto di Dio, è la risposta umana a una religione che ti rende schiavo. Quando il figlio minore uscendo di casa chiede l’eredità al padre, gli sta dicendo che per lui è come se fosse morto… ed è il passaggio necessario perché muoia «quella idea» di Dio. Ed è il passaggio decisivo del Vangelo. È la conversione più difficile.
C’è una conversione morale che è la correzione di atteggiamenti sbagliati, di scelte sbagliate… che è necessaria da parte dei peccatori, ma c’è una conversione che è quella delle persone per bene, delle persone giuste come il figlio maggiore che fa le cose giuste, fa il suo dovere, ma non ama, non riesce ad amare il Padre. In questo i due figli sono uguali. Il loro comportamento esteriore è esattamente agli antipodi, ma in realtà il loro modo di relazionarsi col padre coincide, entrambi vivono nella sudditanza, nella logica del do ut des.
Questa dicevo è la tragedia di Dio: che la sua casa sia abitata da schiavi, da esecutori di ordini… e che nessuno lo ami. Paolo quando scrive la lettera ai Romani non fa una teologia astratta, ma una teologia a partire dalla sua esperienza, perché lui stesso è stato un fariseo che dall’idea del Dio della legge ha accolto il Dio di Gesù che è Padre e Madre che ama di amore gratuito. Ma proprio per questo Gesù è stato crocifisso e non dai cattivi, ma dai giusti secondo la religione e la sua morte è liberazione dalla paura e dalla tirannia della religione, tanto grande è il suo amore.
Poco sopra Gesù aveva raccontato due parabole: quella della pecora perduta e della dracma smarrita. La pecora si perde nel deserto, cioè fuori casa. La dracma invece è smarrita in casa. Lo stesso capita ai due figli: il prodigo perde il rapporto col padre e si allontana da casa; il maggiore pur abitando quella stessa casa, non ha un bel rapporto col padre. Luca costruisce l’architettura della parabola come succede in molti altri passi con coppie di personaggi, pensate a Marta e Maria, ai due discepoli di Emmaus, ai due ladroni sulla croce… dove il terzo, in questo caso il padre, è come il vertice di un «triangolo drammatico» intorno al quale avviene l’imprevedibile. Infatti come la pecora e la dracma sono ritrovate, così anche i due figli sono ritrovati dal padre che è la figura che dispiega tutta la sua grandezza sia nelle scelte che compie a favore dei figli sia nelle parole che rivolge loro. Al minore che fa calcoli meschini e al maggiore prigioniero dei suoi pensieri gretti, il padre rivela una altro e sorprendente punto di vista, il suo amore incondizionato, un amore assoluto, nel senso letterale, cioè sciolto da qualsivoglia bisogno di scambio o di criterio di merito.
Accenno per concludere a una delle innumerevoli conseguenze che scaturiscono da un rapporto finalmente libero con Dio: nel vangelo di oggi per dodici volte si ripete il nome «padre», ma mai una volta viene pronunciato da parte del secondo figlio che non riesce nemmeno a chiamare il figlio prodigo col nome di «fratello». Questo ci dice che se rinchiudiamo Dio dentro le nostre impalcature mentali, i nostri pregiudizi, non solo non amiamo lui, ma non riusciamo nemmeno a considerarci fratelli e sorelle fra di noi.
Forse per questo ancora oggi tanti non entrano a far festa…