II DOPO PENTECOSTE - Mt 6, 25-33


Il commento più adeguato alle letture di oggi che abbiamo appena ascoltato, potrebbe essere fatto con la lettura dell’enciclica Laudato sì’, che papa Francesco ci ha donato proprio un anno fa (24.5.2015).

Così inizia la riflessione del papa: «Nostra sorella madre terra protesta per il male che le provochiamo, a causa dell’uso irresponsabile e dell’abuso dei beni che Dio ha posto in lei. Siamo cresciuti pensando che eravamo suoi proprietari e dominatori, autorizzati a saccheggiarla. La violenza che c’è nel cuore umano ferito dal peccato si manifesta anche nei sintomi di malattia che avvertiamo nel suolo, nell’acqua, nell’aria e negli esseri viventi. Per questo, fra i poveri più abbandonati e maltrattati, c’è la nostra oppressa e devastata terra, che “geme e soffre le doglie del parto” (Rm 8,22)».

Inutilmente potremmo prendere il vangelo come invito moraleggiante a non preoccuparci del cibo e del vestino, se non cambiamo lo sguardo come dice Gesù, se non cambiamo il modo di abitare la terra: Guardate gli uccelli del cielo…  e poi: Osservate come crescono i gigli del campo…

L’invito del Signore è di spostare lo sguardo centrato su noi stessi e sui nostri bisogni che conduce al consumo irresponsabile, e allargarlo a contemplare il creato nel quale siamo immersi. È un invito a renderci conto dell’ambiente nel quale ci ha posti e che riceviamo come dono fin dal primo istante della nostra vita.

Noi non siamo Dio. La terra ci precede e ci è stata data.

Mi sembra molto bella questa opportunità che la parola di Dio ci offre dopo la festa di Pentecoste di ricominciare da capo, dalla creazione. Torniamo a riscoprire non solo i doni di Dio posti dentro il nostro cuore e nel cuore di ogni persona, ma ritroviamo il grande dono del creato, della natura… come abbiamo pregato con le parole del salmo 135: Ha creato i cieli con sapienza, ha disteso la terra sulle acque, ha fatto il sole per governare il giorno, la luna e le stelle per governare la notte…

Già questa capacità di guardare il creato con occhi diversi, con quello sguardo che ci viene suggerito da Gesù, ci aiuta a compiere anche un cambiamento mentale e culturale. Sì, perché anche la teologia cristiana nei secoli scorsi ha dimenticato la responsabilità verso il creato e il rispetto che dobbiamo al ritmo della terra che continua a sostenerci.

L’antropocentrismo, quel mettere l’uomo al centro sempre e al centro di tutto che certamente ha fatto evolvere la nostra umanità, ci ha anche fatto crescere in tante dimensioni – pensiamo alla cura della salute, alla tecnica, ai diritti umani, al rispetto di ogni persona qualsiasi sia la sua provenienza…-, tuttavia ci ha fatto dimenticare quello che ci ricordava Paolo nella lettera ai Romani, ovvero: l’ardente aspettativa della creazione che è protesa verso la rivelazione dei figli di Dio.

Con tutta la creazione camminiamo verso la libertà dei figli di Dio, consapevoli del fatto che come esseri umani siamo una specie tra molte e per questo siamo interconnessi con gli elementi dell’universo.

Senza rendercene conto, con la genuina preoccupazione di mettere l’uomo al centro, abbiamo finito per riconoscergli il potere assoluto di «dominio» sulla creazione.

Lo sguardo sulla vita che Gesù ci chiede di cambiare osservando gli uccelli del cielo e i fiori del campo, non solo ci rende consapevoli di non essere i padroni e i signori del creato, ma di non essere nemmeno i custodi di un museo, perché abbiamo la responsabilità di cooperare alla creazione, siamo in cammino verso la rivelazione dei figli di Dio, ovvero di coloro che portano a pienezza il disegno del Creatore.

Dio chiama l’uomo ad unirsi a lui e a completare la sua opera, nello sviluppare le risorse naturali… a condizione che l’uomo vigili sul mondo, se ne prenda cura, sentendosi responsabile per tutta l’umanità.

Nel Talmud si racconta che un giorno un pagano si mise a discutere con un rabbino sulla creazione. Per prima cosa il pagano chiese: Se Dio ama i poveri, perché non li sostenta lui?

Il rabbino rispose che il desiderio di Dio è quello di associarci nel perfezionamento della società e diventare così partner di Dio nella creazione.

Allora il pagano volle porre una domanda ancora più insidiosa: Quali sono le opere migliori: le opere di Dio o le opere dell’uomo? Il rabbino sorprendentemente rispose: Le opere dell’uomo.

Ma il pagano riprese: Osserva le stelle nel cielo!

Al che il rabbino rispose: Guarda il grano questo è un lavoro divino. Guarda il pane, questo è il lavoro dell’uomo. La vera perfezione si ottiene soltanto quando l’uomo associa i suoi sforzi con le opere divine diventando in tal modo un partner con Dio nella creazione.

A me sembra che stia qui un primo significato della proposta di Gesù, il quale dopo aver ripetutamente chiesto di non preoccuparci…, ci invita a cercare anzitutto il regno di Dio e la sua giustizia. Si tratta anzitutto di «cercare il regno di Dio», appunto cercare di avere uno sguardo che non mette noi al centro di tutto, ma di sentirci parte vivente di un tutto.

Cos’è la giustizia di Dio, come possiamo arrivare a comprendere una dimensione che sfugge alle nostre possibilità di comprensione?

Ben Sira fa le stesse riflessioni che nascono in noi quando ci troviamo in riva al mare, in cima a una montagna, sotto il cielo di una notte stellata: Che meraviglia! Chi può fare cose del genere? Ecco contempliamo il dono di Dio, i doni del Creatore. Intuiamo che c’è una qualche relazione tra l’ambiente in cui viviamo e l’Eterno. A non essere superficiali e tantomeno arroganti dobbiamo riconoscere e contemplare che non siamo Dio, ma la terra è di Dio.

La seconda lettura di Paolo sottolinea un’altra dimensione, quella del noi: L’ardente aspettativa della creazione è protesa verso la rivelazione dei figli di Dio. Noi tutti gemiamo aspettando l’adozione a figli, la redenzione del nostro corpo. Siamo solidali in questa gestazione delle creature che attendono di essere liberate dalla corruzione per entrare nella libertà dei figli di Dio. Siamo tutti su questa terra, uniti nel comune destino come umanità, in attesa di giungere alla libertà dalla corruzione, dal degrado.

Infine, Gesù sottolinea il nostro rapporto con le cose. Il cibo e il vestito sono due esemplificazioni per dire che la nostra condizione come esseri umani è stabilita dalla relazione con Dio Creatore e poi dalla relazione con gli altri, ma anche dalla relazione con le cose, col creato.

Cercare la giustizia di Dio significa per tutti noi vivere consapevoli di queste tre relazioni: con Dio, con gli altri e con il creato. Quando dimentichiamo questa triplice relazione che costituisce e fonda l’antropologia biblica si crea uno squilibrio, si danno scompensi nella grande sinfonia del creato. E allora si rende necessario cercare soluzioni non solo nella tecnica, ma anche nel cambiamento dell’essere umano.

Il peccato è certamente lo sfruttamento, la bramosia nei confronti del creato, peccato è la mancanza di misura… questi sono peccati, ma il peccato di fondo è la rottura della triplice relazione tra Dio, gli altri e le cose, questa è quella che Gesù chiama la giustizia di Di.

Vale a dire il peccato è considerare l’acqua, l’atmosfera, i sassi come gli animali… quali realtà giustapposte separate le une dalle altre, quando nel disegno della creazione sono sempre in connessione tra di loro, incluse una nell’altra in completa reciprocità.

Per dirla in una parola, l’essere umano più che un essere “sulla” terra, è un essere “della” terra.

E la terra è di Dio e sua soltanto, l’essere umano la riceve da lui, e non può prescindere dall’intimo rapporto insito in questa sua proprietà. Trattarla a proprio piacere o sottrarla all’uso voluto da Dio, dimentichi di lui e dell’altro, costituisce una contaminazione, una profanazione, un abominio.

Privatizzare un bene come l’acqua,  è un esempio clamoroso del cortocircuito delle tre dimensioni della giustizia di Dio: un dono di Dio per tutti di cui alcuni vogliono impadronirsene per soggiogarla alle regole del mercato. È interessante vedere come l’autentica antropologia biblica riconosca quelli che noi nel tempo abbiamo a fatica conquistato come diritti. Proprio come l’acqua che costituisce un diritto umano essenziale perché determina la sopravvivenza delle persone, e che rischia di essere trasformato in merce soggetta alle leggi del mercato.

La traduzione contemporanea dell’invito di Gesù a cercare la giustizia di Dio, potrebbe essere quella di cercare il bene comune! È il bene comune l’orizzonte delle nostra azioni, delle nostre scelte, della nostra responsabilità? Siamo davvero liberi di perseguire il bene per tutti, o capita che senza che ce ne rendiamo conto, di essere schiavi senza catene? Il consumismo non fa altro che spostare le catene dall’esterno all’interno. Dentro siamo incatenati a una infinità di capricci e false illusioni. Ed è davvero difficile liberarci da questa schiavitù, se viviamo credendo di essere liberi.

Per questo oggi preghiamo il Signore, dicendo: Venga il tuo regno e dacci oggi il nostro pane quotidiano. Una preghiera che ci insegna che riceviamo la terra come dono, che la abitiamo con responsabilità per poterla consegnare alle generazioni future, ancora vivibile.

(Sir 18, 1-2.10-13; Rm 8, 18-25; Mt 6, 25-33)