II DOPO IL MARTIRIO DI S. GIOVANNI IL PRECURSORE - Gv 5, 37-46


(Is 63,7-17; Eb 3, 1-6; Gv 5, 37-47)

Penso di interpretare il pensiero di molti se dico che il passo del vangelo di Giovanni che abbiamo appena letto, appare un poco ostico. Non è sufficiente leggerlo una sola volta, sarebbe necessario ritornare sulla pagina più volte, anche per collocarla nel contesto più ampio del capitolo.

Allora, dobbiamo ricordare che all’inizio della discussione sta il fatto che Gesù mentre si trova a Gerusalemme guarisce un uomo paralizzato da 38 anni alla piscina di Bethesda. Un fatto che secondo noi dovrebbe far gioire e ringraziare, e invece fa scatenare immediatamente la polemica, al punto che il Signore deve difendersi dalle accuse, e siamo davvero al paradosso, a costoro non gliene importa nulla che un uomo sia stato guarito dopo tanti anni di sofferenza, questa cosa proprio non sembra sfiorarli, sono talmente accecati dall’invidia e dall’odio che dietro al pretesto del sabato dicono: Guarda che però non potevi portare la barella di sabato! (v.10).

Ma come, quest’uomo dopo 38 anni è stato guarito e voi vi preoccupate della barella? Succede che in nome della legge di Dio si possa andare contro l’uomo?

Si può perversamente arrivare a pensare che sia meglio per un uomo stare rattrappito nella sua paralisi piuttosto che portarsi in spalla la sua barella di sabato?

C’è qualcosa che non va, e Gesù provoca ulteriormente: Il Padre mio agisce anche di sabato e anch’io agisco (v.17). Che è come dire se è vero che l’uomo non può lavorare di sabato, in realtà Dio ha lavorato di sabato perché in quel giorno ha creato l’uomo!

Allora io, dice Gesù, come inviato dal Padre, continuo la sua opera, continuo ad agire, a curare, a salvare anche di sabato.

Potete ben immaginare le reazioni! Infatti tutto il capitolo è costruito come fossimo in un processo, di cui noi abbiamo letto solo una minima parte del monologo del Signore nel quale cerca di argomentare la sua difesa.

Ma non solo, nella sua difesa Gesù arriva a fare una requisitoria nei confronti dei suoi accusatori, arrivando a dire: C’è già chi vi accusa: Mosè. Gesù chiama a sua difesa Mosè, perché egli ha scritto di me. Dovremmo dunque rileggere l’Esodo e andare a vedere in che cosa Mosè scrive di Gesù?

In realtà è Gesù stesso che subito dopo nel cap. 6, ci fa capire che cosa intendeva, compiendo due segni molto precisi: anzitutto moltiplica i cinque pani e i due pesci per i cinquemila uomini. Dare il pane alla gente in un luogo deserto fa pensare l’uomo biblico al dono della manna per il popolo che camminava nel deserto!

Un secondo gesto compie Gesù, racconta ancora Giovanni nel cap. 6, venuta la sera Gesù va incontro ai discepoli che sono sulla barca camminando sulle acque del lago.

Un gesto per dire che lui è Signore del mare, Gesù domina le acque… chiaro riferimento al passaggio attraverso il mar Rosso compiuto da Mosè.

Questi due segni attestano che se Gesù compie opere che sono anche più grandi di quelle di Mosè, significa che egli viene nel nome del Padre.

Ecco una prima prospettiva di riflessione teologica, anzi cristologica: Gesù è il Figlio inviato dal Padre, è il Figlio di Dio. Mosè, e con lui tutti coloro che lo hanno preceduto e quelli che verranno dopo, sono segni dell’amore fedele di Dio, ma solo Gesù può dire: Io sono venuto nel nome del Padre mio.

«Lui è l’apostolo e il sommo sacerdote della fede che professiamo» scrive l’autore della lettera agli Ebrei. Gesù è l’esegeta di Dio e noi imparando da lui, ascoltando la sua parola, contemplando la sua tenerezza, coltivando una relazione personale con lui possiamo riconoscere e accogliere il volto del Padre.

Non solo, come scrive l’autore della lettera agli Ebrei – ed è la seconda prospettiva di riflessione-, se Mosé fu degno di fede in tutta la sua casa come servitore… Cristo invece lo fu come figlio posto sopra la sua casa. E la sua casa siamo noi, se conserviamo la libertà e la speranza…

La sua casa siamo noi. Ma tutti noi sappiamo che c’è casa e casa: perché ci può essere l’edificio, l’appartamento elegante, funzionale, bello e moderno ma dentro lì può starci il più grande inferno perché c’è violenza, non si parla, non c’è relazione, né ascolto… e magari nel tugurio del campo abusivo invece troviamo più cura e solidarietà.

È chiaro che sto stressando il concetto per lasciarci interpellare dalla parola di Gesù: il fariseo si preoccupa dell’esteriorità, all’Eterno sta a cuore la qualità della casa. Sia nelle lingue antiche, ma anche le lingue moderne spesso si ricorre al termine «casa» per indicare ora l’aspetto funzionale, la struttura, l’immobile ora per indicare le relazioni, gli affetti, quel microcosmo che sono le nostre famiglie (oikia: abitazione; oikos: famiglia; home-house).

Ebbene chiediamoci: noi che casa siamo?

Ho davanti agli occhi l’interminabile fila di persone che hanno voluto porgere l’ultimo saluto al card. Martini, ho nel cuore l’immagine della folla che ha pregato al suo funerale, come di un popolo che si è stretto ad abbracciare quel Mosè che è stato per noi l’arcivescovo per oltre 22 anni lungo i quali seminato a piene mani la parola di Dio.

A questa casa Martini ha dedicato le sue forze e le sue energie perché conservasse la libertà e la speranza, affinché fosse una casa accogliente per chi nella vita cercava uno spazio di gratuità e di ascolto, una casa dove la cura è per la persona anzitutto, al di là delle facili etichette e pregiudizi. Perché questo era il modo di essere di Gesù.

Ci doni il Signore di non essere come quei farisei del Vangelo che pensavano di credere in Dio come in un oggetto della loro speculazione, come una conquista delle loro buone azioni, e furono incapaci di vedere i segni della tenerezza e della cura di Gesù! Saremmo ottusi e tristi come loro al punto di aver bisogno dei nemici per sentirci credenti più autentici.

Mentre ringraziamo il Signore per averci donato un uomo di Dio come Martini, lo preghiamo di intercedere per la nostra chiesa: affinché possiamo essere casa di Dio e non del potere; casa di persone libere di fronte al futuro e non schiave della paura; casa piena di speranza nelle inevitabili difficoltà e delusioni che incontriamo ogni giorno.