X DOPO PENTECOSTE - Mc 12, 41-44
(1 Re 8,15-30; 1Cor 3,10-17; Mc 12, 41-44)
Le tre letture che abbiamo ascoltato hanno in comune il tema del tempio e sembrano disegnare per noi un percorso di senso e di significato.
1.Nella prima lettura il re Salomone prega per la prima volta in quel tempio che lui, figlio di Davide, re saggio e giusto cui Israele deve 40 anni di pace, ha fatto costruire. Ecco dopo aver seguito Abramo che ascoltava la voce di Dio nel deserto, dopo aver assistito alla preghiera di Mosè che saliva sul monte Sinai per incontrare il Signore, e dopo aver visto il popolo imparare a pregare intorno alla tenda sotto la quale erano custodite le tavole di Mosè… ci sembra con la costruzione di un tempio che la fede di Israele si allinei alla stregua della storia di tutti i popoli, alla storia religiosa di sempre.
Se andiamo a rileggere la costruzione del tempio di Salomone, sembra quasi che il re volesse fare a gara con gli altri templi per costruirne uno più grande e bello. Tutto, o quasi, veniva dal Libano, architetti e maestranze, il legname era tratto dai cedri e dai cipressi del Libano. E solo per rendere l’idea di cosa era quel cantiere basti pensare che gli operai di fatica erano settantamila, gli scalpellini che estraevano pietre dalle montagne ottantamila… il tutto per una durata di sette anni e mezzo!
Certo una differenza importante c’era: invece di una statua oggetto di culto come in tutti i templi pagani, nell’oscurità del sancta sanctorum stava l’arca. Una sorta di cassa panca che conteneva le tavole del Sinai e voleva raffigurare il trono del Signore[1]. Non solo, ma anche nelle parole di Salomone registriamo una sana inquietudine. Dopo aver fatto tutta la fatica di realizzare un’opera di cui si parlerà nei secoli quest’uomo intelligente e saggio si domanda: È proprio vero che Dio abita sulla terra? Ecco i cieli e i cieli dei cieli non possono contenerti e tanto meno questa casa che io ho costruito (v.27). Se è vero che ha voluto costruire il tempio come per voler dare una «casa a Dio», Salomone è consapevole che questa però non diventa «la casa di Dio», intesa come abitazione esclusiva. Lì abita il Nome del Signore.
Il fatto che vi abiti il Nome, significa che vi abita Dio così come l’ha conosciuto Israele, per l’esperienza che ne ha fatto il popolo, vi abita quella Shekinah,ci sta quella presenza che non vuole assolutamente diminuire la trascendenza del Signore. A questo pensiero dà voce la struggente preghiera conclusiva del re: Ascolta la preghiera del tuo servo e del tuo popolo quando pregheranno in questo luogo. Ascoltali nel luogo della tua dimora, in cielo; ascolta e perdona (v.30).
È questa sana inquietudine e dialettica che permette di avere un rapporto filiale con Dio per non ridurlo a un oggetto, Dio non si esaurisce nell’idea che noi ci facciamo di lui.
2. Anzi con Gesù, questo tema del tempio e della sua distruzione diventerà una delle cause della sua condanna a morte. Ed è forse da questa prospettiva che meglio possiamo comprendere il racconto di Marco e noi ci immaginiamo questa vecchina che nella sua piccolezza e nella sua povertà si mette in fila davanti a una delle tredici casse che raccoglievano le offerte per metterci le sue due monetine di rame. La parola che Gesù sceglie per descrivere la povertà di quella donna è un termine estremo. Dice non solo che di quattrini ne aveva pochi, ma che non erano nemmeno sufficienti per comprarsi una pagnotta. Per un pezzo di pane infatti servivano almeno 10 di quelle monetine di rame, lei ne aveva solo due!
Non solo, ma la piccola offerta gettata dalla vedova nel tesoro del tempio era al di sotto del minimo obbligatorio: quasi un’offerta «da non fare», illegittima, troppo misera! È stata dunque non solo generosa, quella povera donna, ma anche coraggiosa.
Ed è osservando questa cosa che Gesù afferma: «Questa vedova ha gettato nel tesoro più di tutti gli altri». Ma come? Che razza di matematica è questa? Eppure è proprio così, dice Gesù perché lei, gettando quel pochissimo «vi ha messo, nella sua povertà, tutto quello che aveva, tutto quanto aveva per vivere». Anzi letteralmente il testo dice: Vi getta tutta la sua vita. E quindi se stessa.
Ecco perché vi getta più di tutti gli altri. Questa è la strana matematica di Dio. Non ricorre mai in questi versetti il termine «offerta» o «elemosina» per qualificare il gesto della vedova. Marco presenta l’atto di mettere il denaro nella cassetta come un «gettare tutta la propria vita». Così facendo la povera vedova in realtà celebra profeticamente la passione di Cristo.
Infatti dopo questo fatto Gesù uscirà dal tempio e non vi tornerà più e inizia, dopo il discorso escatologico, il racconto della passione, quando in un certo senso anche la vita di Gesù viene «gettata».
Il racconto è come una parabola suprema del vangelo e della storia del tempio: quella donna ha celebrato in se stessa, la passione del Cristo, non solo ma a ben guardare Gesù ci fa anche pensare all’assurdità del gesto di quella donna. La polemica è sottile, ma in realtà quella donna è prigioniera di un sistema di valori che la spinge a dare tutto ciò che possiede per un edificio che non soltanto è screditato insieme ai suoi rappresentanti («Guardatevi dagli scribi che divorano le case delle vedove» 12,40), ma è destinato a scomparire. Uscendo dal tempio, Gesù sa che prima o poi la grande struttura decadrà. Come tutte le strutture.
3.E questo Paolo lo ha ben compreso quando scrivendo a quei cristiani di Corinto che magari non hanno visto il tempio di Gerusalemme, ma almeno avranno visto i bellissimi templi greci e li folgora dicendo: Non sapete che siete tempio di Dio e che lo Spirito di Dio abita in voi? (v.16).
E infatti i primi gruppi di cristiani, le prime comunità si trovavano nelle case, nelle abitazioni più accoglienti… e ci vorranno quasi tre secoli prima che si costruiscano degli edifici di culto cristiani. Ma fino ad allora era più forte la consapevolezza che la comunità dei discepoli fosse il tempio vero, che la qualità della vita cristiana fosse la più splendida cattedrale.
E qui ritorna la strana matematica di Dio che ci mette in guardia per non dimenticare «per chi» noi siamo qui, chi è il motivo del nostro pregare di domenica in domenica. I templi, ma così anche le nostre istituzioni, le nostre strutture sono sempre più complesse, troppo complesse a tal punto da dimenticare di essere umane e per questo prima o poi crollano, si frantumano. Il tesoro del tempio è finito, ma il dono di Gesù continua ancora a nutrire la vita di tante persone. Possiamo ricostruire un tessuto umano e ecclesiale solo con la relazione, mettendoci in gioco, facendo come fa la povera vedova, il dono di noi stessi.
Noi possiamo trarre un gran bene dall’ esempio della vedova povera. Anche perché ci fa bene accorgerci, ancora una volta, che la nostra vita è seguita dallo sguardo attento e buono del Signore. L’unico piccolo rammarico potrebbe essere che il bel commento di Gesù sull’episodio del tempio non viene a conoscenza della protagonista, perché lui lo racconta solo a noi. Non le è dato di ascoltare le parole di complimento che Gesù le riserva.
Poi, ripensandoci, anche questo ci commuove e ci allieta: al gesto riservato e umile della donna corrisponde la delicata riservatezza del Signore, quasi ad affermare che lei non ha bisogno di certe spiegazioni, perché quello che vive e fa è già tutto frutto della sua intesa profonda con il mistero della carità divina, della strana matematica di Dio che non solo stabilisce la portata di un gesto sulla base delle reali possibilità di ciascuno, ma soprattutto apre ai più piccoli le porte dell’amore più grande.
[1] Al di là della bellezza dell’edificio costruito da Salomone che venne distrutto dai Babilonesi (586 a.C.), un secondo tempio venne ricostruito al ritorno da Babilonia e terminato nel 515 a.C. anche se le condizioni economiche non permisero la realizzazione di un’opera simile a quella di Salomone,. L’opera venne invece ripresa prima della nascita di Gesù da Erode.