II DOPO LA DEDICAZIONE - La partecipazione delle genti alla salvezza - Lc 14, 1a. 15-24


Se fossimo su un’astronave saremmo consapevoli di dover per forza di cose collaborare ed essere solidali. A nessuno verrebbe in mente di fare cose o di compiere delle scelte che metterebbero a repentaglio la vita di tutti. Se accettiamo di essere sull’astronave Terra, allora il compito più urgente per noi tutti è di imporci la solidarietà universale e la collaborazione.

Gesù nella parabola paragona il regno di Dio a un invito a cena, perché la vita è condividere la gioia e la bellezza intorno a una mensa dove c’è cibo e vino per tutti. Infatti non ci pensiamo spesso, ma quando veniamo al mondo troviamo già la tavola imbandita, troviamo tutto quello che ci serve per vivere: l’aria, l’acqua, il cibo… tutto è pensato perché tutti possiamo godere del banchetto della vita.

Isaia (il Terzo Isaia) ricorre a una metafora più spirituale: al popolo tornato dall’esilio annuncia l’ammissione al giudaismo dei proseliti stranieri e  conclude la pagina di oggi mettendo sulla bocca di Dio queste parole: la mia casa si chiamerà casa di preghiera per tutti i popoli.

È bella anche questa metafora che esprime chiaramente il pensiero di Dio che abbraccia nel suo sguardo tutti i popoli. Almeno questo è il disegno dell’Eterno che tuttavia è affidato alle nostre mani, alla nostra intelligenza, alla nostra ingegnosità e operosità. Ed è qui nell’esercizio della nostra libertà che le cose si complicano. Tant’è che all’invito a godere del banchetto della vita da parte di Gesù che è rivolto a tutti, affinché tutti ne possano partecipare, alcuni declinano l’invito! Perché?

Il primo: ho comprato un campo… Il secondo: Ho comprato cinque paia di buoi… Segue poi il terzo che rimanda ai sentimenti e alle grandi scelte della vita: Mi sono appena sposato.

Il livello sociale cui appartengono è indicato dalle parole del loro rifiuto: il campo comprato dal primo non era di sicuro il primo posseduto; le cinque paia di buoi non erano uno scherzo. Il bestiame di grossa taglia era prezioso. Nella letteratura rabbinica vengono menzionati dei prezzi di duecento denari per un bue. Quindi siamo di fronte a due personaggi ricchi.

Ma quello che si era appena sposato, cosa c’entra? Avete notato che sono tutti maschi gli invitati? Non c’entra il matrimonio in sé, quello che conta è l’atteggiamento che puoi avere anche nel vivere l’amore ovvero con lo stesso piglio del compratore, del possidente… del proprietario!

Questa è l’esperienza di Gesù, è l’esperienza di ogni giorno. Viviamo nell’ingiustizia, nella diseguaglianza perché alcuni hanno di più, hanno troppo e non condividono, mentre altri non hanno nemmeno il sufficiente per vivere.

“La scoperta fondamentale dell’era moderna, scrive un filosofo contemporaneo, non è stata che la Terra gira intorno al Sole, ma che il denaro gira intorno alla Terra” (Sloterdijk).

Il modo per uscire da questa forza di rotazione che sembra implacabile il Signore la indica quando dice al servo: Esci e vai a invitare i poveri, gli storpi, i ciechi, gli zoppi… Invita i paria del tempo, coloro che erano esclusi dal  banchetto, perché non avevano nemmeno il permesso di vivere in città. Infatti il servo li deve in qualche modo forzare: Costringili ad entrare! I poveri da sempre hanno interiorizzato il senso di inferiorità, di inadeguatezza, di impossibilità. La colpa è loro se sono in questa situazione. Così come il ricco pensa: se sono ricco è perché sono bravo, intelligente, capace. Chi è nella miseria se l’è cercata e sta ai margini (Calvino e Max Weber).

I ricchi ancora oggi si sentono gli invitati privilegiati al banchetto della vita e presumono di poterne godere senza remore. C’è sempre un campo da comprare, c’è sempre un acquisto cui non si può rinunciare…

A questo punto non è che il padrone di casa rimanga offeso e indifferente, tutt’altro si arrabbia molto, si adira! E introduce un modo tutto suo di ristabilire una giustizia, che è quello stesso indicato da Maria di Nazaret prima ancora della nascita di Gesù: Ha ricolmato di beni gli affamati, ha rimandato i ricchi a mani vuote (Lc 1,53)!  L’invito dei poveri al banchetto messianico è qualcosa di più della cura dei poveri o della beneficenza, perché alla fine queste non modificano la situazione e mantengono le strutture ingiuste.

Gesù, secondo il vangelo di Luca, annuncia che il banchetto del regno di Dio vedrà gli ultimi ai primi posti, come racconta in altre parabole. Ma non dobbiamo aspettare la fine del mondo per stabilire un minimo di giustizia, Gesù stesso rende giustizia ai poveri e agli affamati riconoscendo la loro dignità umana partecipando ai pasti con i pubblicani e i peccatori annunciano la giustizia di Dio.

Come a dire che nella sua comunità questo è già un segno vivente e concreto di quella giustizia messianica che tra l’altro è visibile nella cena del Signore: alla tavola dell’eucaristia domenicale tutti si possono sedere: ricchi e poveri, vip e non… davanti a lui non c’è classifica o scala sociale che tenga.

Paolo lo sapeva bene perché quando scrive ai cristiani di Efeso (non importa se a scrivere sia lui o un suo discepolo) mentre era in carcere a Roma, passati i 60 anni e ormai vicino al martirio, ricorda benissimo la prima accoglienza ricevuta a Efeso. Come sempre quando andava in qualche città, per prima cosa era andato a predicare il Vangelo nella sinagoga. La dura opposizione dei Giudei non deve averlo sorpreso. Di sicuro non prese bene il fatto di aver parlato con loro per tre mesi del regno di Dio e della strada di Gesù per raggiungerlo, senza ottenere il benché minimo risultato.

Lasciò perdere i giudei e si rivolse allora agli altri abitanti di Efeso. Andava ogni giorno nella scholé, una grande sala riservata alle letture e ai concerti in casa di un certo Tiranno, un efesino del quale non sappiamo quasi nulla e da lì nacque una bella e vivace comunità, alla quale si rivolge qualche anno dopo richiamando gli inizi: Ricordatevi che un tempo voi pagani… eravate lontani, ora invece in Gesù siete diventati vicini (v.13).

È Gesù che abbatte il muro di separazione tra pagani e giudei, il muro tra ricchi e poveri, il muro tra credenti e non credenti… è Gesù il demolitore. E come Gesù ha abbattuto quel muro di diffidenza e di violenza? Con l’amore, è questa la vera “ruspa” che spazza via le barriere, i reticolati, i confini… il cui nome è inimicizia (th\n eÃxqran).

L’inimicizia, letteralmente l’extra, è qualcosa che esclude, che mette fuori e poteva avere il nome della Legge di Mosè, oppure per alcuni del recinto del tempio di Gerusalemme che divideva il cortile dei Giudei da quello dei pagani, chi oltrepassava tale limite veniva messo a morte…

Anche oggi risuona spesso questo “fuori”, anche oggi si innalzano i muri, pensate che quando il Muro di Berlino venne abbattuto, un quarto di secolo fa, erano 16 le recinzioni in tutto il mondo. Oggi sono quasi 70[1].

Muri che se per un verso vorrebbero “contenere” le ingiustizie, in realtà le consolidano e se apparentemente e per un certo tempo mantengono una qualche forma di pace, in realtà sono delle bolle fondate su un’ingiustizia troppo grande, così che prima o poi esplode in forme di terrorismo, di violenza, di guerra.

Oggi, 4 novembre, come cent’anni fa si concludeva quella che sui libri di storia è considerata la “prima guerra mondiale”, al termine della quale, con l’annessione di Trento e Trieste, si completò l’unità nazionale, detta anche la “grande guerra”. Fu una “Grande guerra” sicuramente per il numero delle vittime se ne stimano tra militari e civili circa 16 milioni, di fronte al quale papa Benedetto XV in una lettera ai “capi dei popoli belligeranti” che porta la data del 1° agosto 1917, chiese di giungere “quanto prima alla cessazione di questa lotta tremenda, la quale, ogni giorno più, apparisce inutile strage”.

Come abbattere ancora i muri oggi? Come evitare che “inutili stragi” come quella che avviene in Yemen dove da tempo l’Arabia Saudita sta portando avanti un vero e proprio assedio umanitario per cercare di piegare la popolazione. Un assedio che ha provocato la diffusione di malattie e di malnutrizione. Che hanno colpito essenzialmente i civili.

Penso a due cose. Anzitutto impariamo ad adirarci, sì, dobbiamo reagire alle ingiustizie, possiamo evitare di cadere nell’indifferenza o nella rassegnazione. Il padrone di casa della parabola si adira, c’è un’orghé, un’ira, un’indignazione che non solo è legittima, ma che palesa la convinzione e la passione della nostra sete di giustizia.

Esiste un’ira, una collera «positiva», necessaria alla vita umana ed è una sorta di zelo, di rigore positivo che è necessario manifestare di fronte al male, all’ingiustizia, alla sofferenza delle vittime… Addirittura ricorda il salmo «La collera dell’uomo dà gloria a Dio» (76,11).

E poi una seconda cosa: guardiamo ai poveri e impariamo da loro, è possibile vivere senza abiti firmati, senza l’ultimo smartphone… quasi senza rendercene conto siamo schiavi dentro un sistema stupido che vuole solo spillare soldi e farci lavorare come muli… ridotti a macchine sempre pronte al consumo, incapaci di gioire e di condividere.

Impariamo a vivere col necessario e dedichiamo tempo a coltivare relazioni e amicizie. Povero, anzi misero è chi inseguendo le cose, come i personaggi della parabola, non ha più una comunità, non ha amicizie.

La sobrietà ci rende migliori perché ciò che ci rende felici non sono gli oggetti, ma le relazioni umane, piene d’amore.

(Is 56, 3-7; Ef 2, 11-22; Lc 14, 1a. 15-24)

[1] 12 in Africa; 2 in America; 36 in Asia e 16 in Europa.