IV DOPO IL MARTIRIO DI S. GIOVANNI IL PRECURSORE - Gv 6, 24-35


 

Di cosa abbiamo fame? Di che cosa abbiamo bisogno, cosa andiamo cercando in questo momento, in questa stagione della nostra vita per sentirci soddisfatti?

E se spostiamo lo sguardo ai nostri cari, ai nostri amici: di che cosa hanno bisogno loro secondo noi? Cosa li renderebbe felici?

E se vogliamo spingerci ancora più in là fino ad abbracciare l’umanità intera: cosa cercano l’uomo e la donna di oggi per essere contenti, per avere un po’ di gioia?

La domanda non è retorica, basterebbe andare al primo pensiero che coscientemente abbracciamo appena alzati la mattina: cosa affiora alla superficie della nostra coscienza? Il lavoro, l’amore, la salute, la scuola, gli esami, una relazione, una preoccupazione, un pericolo? Cosa sta davvero in cima ai nostri pensieri, ai nostri interessi e che pensiamo ci possa dare felicità?

Nei versetti precedenti il vangelo di Giovanni raccontava come il Signore avesse moltiplicato cinque pani d’orzo e due pesci per la folla che lo seguiva e che adesso cerca disperatamente Gesù per mari e monti, in senso letterale, e lo fa perché il Signore ha moltiplicato i cinque pani e i due pesci per loro!

Ecco uno che ci risolvesse una volta per tutte il problema del pane, come non potremmo farlo re o presidente del consiglio?

Ma Gesù li incalza: Datevi da fare non per il cibo che non dura, ma per il cibo che rimane per la vita eterna (v.27).

Datevi da fare non per le cose, dice il Signore, non dice semplicemente: cercate la salute, cercate il denaro, cercate l’anima gemella della vostra vita ….! O qualcuna delle cose che più ci stanno a cuore. Il comando di Gesù è: datevi da fare per il cibo che dura per sempre e non per quello che finisce.

Ed è un invito curioso per noi che oggi viviamo la moda dell’arte di cucinare: trasmissioni, pubblicazioni, spettacoli e personaggi famosi e non che si cimentano ai fornelli… è una cosa bella perché lo stare a tavola insieme è un momento magico di umanità. Ma appunto siamo sempre alla ricerca di originalità, di nuovi gusti, di nuove ricette… qual è il cibo che dura per l’eternità? E poi per noi che subito andiamo a leggere sulle confezioni: da consumarsi preferibilmente entro il… C’è del cibo sul quale non leggiamo una scadenza?

C’è un cibo al quale possiamo non incollare questa etichetta? Perfino sulla manna di Mosè c’era la scadenza: andava mangiata entro sera e non si poteva conservare per più di un giorno!

La questione è che il cibo di cui parla Gesù, non è qualcosa, ma è qualcuno, è lui. Così chiude la pagina di oggi: Io sono il pane della vita, che è la prima delle sette formule con cui Gesù definisce se stesso. Poi dirà: Io sono la luce (8, 12); la porta (10, 7.9); il buon pastore (10, 11.14); la risurrezione (11, 25); la via (14, 6); poi conclude con la settima: Io sono la vite (15, 1.5).

La prima metafora con cui Gesù si identifica e si fa conoscere è quella del pane e l’ultima è quella della vite: ed è appunto il tema dell’Eucaristia che sarà al cuore della seconda parte del cap.6. Ma in queste righe nella metafora del pane che non muore, nel cibo che dura per sempre, leggiamo la metafora della relazione: mangiate me, ovvero entrate in relazione con me.

La realtà profonda delle cose sta nella relazione, la vera soddisfazione della nostra fame e sete d’amore, di felicità, di fiducia e di speranza non sarà mai pienamente soddisfatta dalle cose, ma dalle relazioni.

Il cibo che non muore è la relazione con Gesù e ogni relazione che sia degna di tale nome sta in piedi su due cose: la parola e il contatto.

La stessa celebrazione dell’eucaristia, come dice il Concilio, ha due tavole: la tavola della Parola e la tavola del Pane. Poiché mangiamo della sua Parola, siamo accolti dal suo amore allora possiamo condividere il pane e il vino e diventare così il suo corpo. Poiché ascoltiamo la sua Parola, mangiamo questa parola, entriamo in relazione con lui così che nel corpo e sangue non solo «riceviamo», ma «diventiamo» il Corpo di Cristo.

Se imparassimo a crescere in questa relazione, se dedicassimo cura e tempo a nutrire la relazione col Signore, forse sapremmo custodire relazioni più umane.

Perché è appunto di etica delle relazioni che abbiamo bisogno oggi. Dopo anni di morale sessuale centrata sul proibito e sul lecito, dopo decenni di liberazione dai tabù quasi come reazione… ci rendiamo conto che ogni 2-3 giorni parliamo di una qualche violenza sulle donne se non di femminicidio! Si rende quanto mai necessario educarci ed educare a un’etica delle relazioni. Dopo millenni si dice all’uomo: non basta essere maschi per avere in mano il mondo, c’è un’altra persona vicino a te. Sarete in due, sarete insieme. Ma quell’insieme va costruito, va educato, va accompagnato.

Viviamo una regressione incredibile: non solo i ragazzi non sono abituati a sentirsi dire dei “no”, ma sono in preda a deliri di onnipotenza, sono gelosissimi, sono possessivi, hanno paura di essere lasciati e di fronte alla sacrosanta emancipazione delle donne, i ragazzi sono sperduti.

Educare alla relazione nelle due direzioni: della parola e del contatto.

Anzitutto la relazione passa attraverso la parola che l’amico ti dona, che tu gli doni. Trovare le parole dove le parole prima non c’erano, e quindi poter condividere i sentimenti più profondi con un altro essere umano, poter condividere il dolore, la gioia, le intuizioni dell’anima… è una delle esperienze più profonde che ci può capitare di fare.

E poi l’educazione al contatto concreto, fisico, umano che si esprime nell’abbraccio, nella stretta di mano, fino a culminare nell’atto d’amore. Ma chi educa alla tenerezza e al rispetto? Io lo vedo ogni giorno nei suoi effetti devastanti. Mi è capitato di avere in comunità una giovane mamma che non voleva nemmeno non dico abbracciata, ma neanche essere sfiorata, toccata sulla spalla, nemmeno una stretta di mano. Potete immaginare il trauma di chi a 4-5 anni ha subito violenza e l’unico riparo sicuro lo ha trovato nella cuccia di un cane randagio per diverse settimane, al quale dice di avere anche offerto da mangiare perché le faceva pena!

Non è nell’individualismo, nell’egoismo, nella soddisfazione dell’io che troviamo la felicità e la gioia di vivere. Dobbiamo educarci ed educare a quello che Gesù ci indica come la strada della vita, della gioia, della bellezza che è la relazione. Non a caso il Signore ha scelto il pane come metafora della sua relazione con noi. La relazione è come il pane: va coltivata, curata, macinata, impastata, lasciata lievitare e poi condivisa.

Nella relazione con Cristo, una relazione che non finisce mai, scopriamo che anche tutte le nostre relazioni sono senza scadenza, ma in continua trasformazione.

Preghiamo il Signore perché continui ad impastare la nostra vita con il lievito del Vangelo, o, come diceva Isaia, a plasmarci come argilla nelle sue mani: Signore, tu sei nostro padre, noi siamo argilla e tu colui che ci plasma, tutti noi siamo opera delle tue mani (Is 64, 7).

(Is 63,19-64,10; Gv  6, 24-35)