DOMENICA NELL’OTTAVA DEL NATALE DEL SIGNORE - Gv 1, 1-14


Come ebbe a dire la poetessa polacca Wislawa Szymborska (1923-2012) nel suo intervento in occasione della cerimonia del conferimento del premio Nobel (7 dicembre 1996): In un discorso la prima frase è sempre la più difficile. Così deve essere stato per Giovanni nel momento in cui decise, insieme con alcuni discepoli, di mettere per iscritto la sua esperienza con Gesù, il racconto del suo Vangelo, si è domandato: Come cominciare?

Conosceva il vangelo di Matteo che aveva deciso di sviluppare la sua narrazione dal punto di vista di Giuseppe, i sogni, le inquietudini, la fuga dalla violenza di Erode, nell’intento di garantire la discendenza davidica di Gesù secondo il compimento delle Scritture.

Di Marco sapeva che scrivendo il vangelo per i pagani di Roma, aveva omesso qualsiasi racconto della nascita per esordire fin da subito con la vita pubblica di Gesù.

Infine Giovanni aveva avuto tra le mani il rotolo di Luca, il quale privilegiando la prospettiva di Maria, aveva scritto dell’annuncio a Elisabetta e a Zaccaria, dell’annuncio di Gabriele a Maria, del viaggio della coppia a Betlemme, dei pastori e degli angeli…

Ma la comunità che Giovanni aveva davanti, aveva bisogno d’altro. Era una chiesa passata dall’essere un movimento riformatore all’interno del giudaismo fino ad essere espulsa dalla sinagoga (88 d.C.) e da allora dovette far fronte a nuovi problemi e nuove sfide.

La comunità entrò in una fase di cui possiamo solo immaginare le tensioni e i conflitti: alcuni tornarono in Sinagoga, altri mantennero la fedeltà al Vangelo, altri oscillarono tra una parte e l’altra … ritroviamo queste stesse tensioni nelle figure evangeliche di Nicodemo, del cieco, della samaritana, del discepolo amato, di Giuda il traditore e di Pietro che aveva rinnegato Gesù…

Ecco su questo sfondo possiamo intuire qualcosa del pensiero di Giovanni nel momento in cui deve trovare le parole per dare inizio al suo Vangelo.

Lui non è preoccupato di descrivere i dati storici e il contesto della nascita di Gesù, ma evoca con parole sue quel testo che noi abbiamo ascoltato come prima lettura, tratto dal libro dei Proverbi di Salomone, in cui la Sapienza parla, anzi grida – quasi fosse una persona – e poi gioca – questo è l’ultimo verbo che la descrive – per dire che Dio non è estraneo alla complessità della storia del mondo.

Giovanni, che doveva conoscere bene questo testo, lo riscrive in qualità di testimone e di apostolo di Gesù, annunciando che la Sapienza di Dio, che lui chiama il Logos, non solo non è estranea alla storia del mondo, ma addirittura è venuta ad abitare in mezzo a noi. Quella sapienza che ha parlato e fatto il creato, quella Sapienza che gioca col mondo, quel Logos che era con Dio fin dal principio, ora in Gesù si è fatto carne e venne ad abitare in mezzo a noi.

In lui era la vita, e ancora, è la luce che viene nel mondo… temi che torneranno più diffusamente nel vangelo e che vengono solo accennati. Proprio come nel preludio di una sinfonia si anticipano i motivi principali che verranno poi ripresi, così nel testo del prologo incontriamo quei temi che l’evangelista narrerà lungo il racconto della vita di Gesù e sono: la luce, la vita, l’accogliere e il rifiutare, la testimonianza, la grazia, la gloria, il diventare figli di Dio.

Non ritroviamo qui tutti i concetti che sono cari a Giovanni, come la croce, l’amore, l’alleanza, il peccato… il prologo non è un indice o una sintesi, è un inno, una poesia che accende suggestioni e pensieri di speranza per cristiani disorientati, scossi, incerti sul futuro, incapaci di comprendere quello che va accadendo e che, come noi d’altronde, si confrontano con chi gli sta intorno.

Giovanni non risponde a queste preoccupazioni con consigli a buon prezzo, vendendo una facile speranza. Già allora, come anche oggi, non mancano i moralisti che dicono agli altri come vivere, come fare… è pieno il mondo di coloro che regalano filosofia a buon mercato e offrono indicazioni di comportamento a esito sicuro, ma che durano niente…

Giovanni chiede al discepolo di fermarsi, di ascoltare e di contemplare il mistero di Dio che si concentra in Gesù. Cosa hai davanti contemplando un bambino nella mangiatoia? cosa vedi in un piccolo e nella sua famiglia costretti a fuggire dalle ire del tiranno di turno? Vedi il logos, vedi la Parola concreta, puoi contemplare Gesù, Parola di Dio fatta carne che dice tutto il desiderio di Dio di entrare in relazione con l’essere umano, di non lasciarlo solo, anche se viene rifiutato. Il Logos che pure è luce, vita, dialogo… non viene accolto, non viene ascoltato.

Questo è il dramma del Natale. Giovanni ricorre a un’altra metafora per descrivere il desiderio di Dio e dice: la luce splende nelle tenebre e le tenebre non l’hanno vinta.

Il messaggio richiama quello di Luca quando racconta la nascita di Gesù come un evento luminoso che squarcia la notte, una luce che attira gli sguardi dei pastori o, come accade nella narrazione di Matteo, è la luce della stella che guida i Magi.

Ora la luce splende nelle tenebre e le tenebre non l’hanno vinta. Ma che cosa sono queste tenebre? A cosa si riferisce? Giovanni parlando di tenebre in generale, ci coinvolge un po’ tutti, uomini e donne di ogni tempo. Ieri era Erode, ai tempi di Giovanni era l’impero romano, oggi è il sistema economico finanziario iniquo, è l’ingiustizia globale della ricchezza prodotta dalla speculazione finanziaria… e ciascuno di noi potrebbe indicare quali sono le tenebre in cui vive…  Tuttavia vi invito a notare i tempi dei verbi:  per la luce Giovanni ricorre al presente (splende), per il rifiuto delle tenebre invece ricorre al passato (non l’hanno vinta).

La luce brilla sempre, dice Giovanni, perché è da Dio, il Logos è al presente per dire che appartiene alla sua natura illuminare. Anche nei momenti più oscuri della nostra vita e della storia del mondo, la luce del Cristo non viene spenta da nessuno!

La luce è una metafora per dire Dio che raggiunge tutti e tutto, si riflette su tutto ciò che incontra, ed è immagine che Gesù stesso userà per indicare la propria missione: Io sono la luce del mondo (Gv 8,12; 9,5)

Per le tenebre invece si ricorre ad un verbo al passato: non l’hanno vinta, per dire che le tenebre possono rifiutare la luce, ma non possono spegnerla. Possono oscurarla per un periodo, in certi momenti… ma non la possono spegnere.

Le tenebre come dicevo sono le ingiustizie e le falsità, le ipocrisie e le superficialità, le violenze e le guerre che ci sono nel mondo. Talvolta anche nelle nostre famiglie scendono le tenebre a causa delle nostre ottusità, delle nostre chiusure … al punto che talvolta le tenebre sembrano dominare e prevalere.

Tuttavia nulla può spegnere questa luce, dice Giovanni. Ed è questa la nostra speranza: a ogni uomo è data la possibilità di accogliere la luce, la Sapienza di Dio. Ma cosa cambia nella nostra vita? Cosa illumina e cosa succede quando uno accoglie questa luce?

Ecco è qui che Giovanni deve trovare le parole giuste, perché davvero in un discorso le prime parole sono sempre le più difficili. Infatti non dice che allora noi possiamo diventare migliori, più giusti, più diligenti … tutte cose buone e affatto scontate, ma scrive: A quanti lo hanno accolto ha dato potere di diventare figli di Dio.

Una cosa non dobbiamo mai dimenticare, dice Giovanni, qualsiasi cosa accada: siamo figli di Dio! Uno può diventare padre o madre, può diventare marito o può diventare moglie, ma non necessariamente. C’è una cosa che ci accomuna, ed è trasversale a tutte le culture e religioni, a tutti i generi e condizioni sociali: tutti siamo figli e lo siamo per sempre. Per Giovanni arrivare alla sua età, ormai centenario, e riconoscere che qualsiasi cosa possa accaderci, qualsiasi problema ci possa venire incontro, noi siamo comunque non solo figli dei nostri genitori, ma siamo “figli di Dio” è fonte di speranza e di fiducia.

Quando contempliamo il Bambino nel presepe, quando con cura accompagniamo i pastori o quando seguiamo la famiglia di Nazaret in fuga in Egitto… contempliamo la grandezza del disegno di Dio che si fa uomo per noi, ma al tempo stesso riconosciamo la dignità che ci viene donata: quella di essere figli di Dio.

Così che quando l’umanità arriverà a riconoscere i diritti universali dell’uomo, non farà altro che dare riconoscimento giuridico a una profonda verità e che come ogni verità è veramente fragile: siamo tutti figli amati da Dio. Forse è anche per questo che la prima frase è sempre la più difficile.

(Gv 1, 1-14)