XVII DEL TEMPO ORDINARIO - Lc 11, 1-13


(Gen 18, 20-32; Lc 11, 1-13)

Non so a quanti di noi sia capitato di ricevere una richiesta analoga a quella che i discepoli hanno fatto a Gesù: papà, mamma, oppure nonno, nonna insegnami a pregare!  Abbiamo insegnato forse “a dire le preghiere”, che non è proprio la stessa cosa, perché la richiesta dei discepoli nasce come per contagio per il fatto che da tanto tempo osservavano Gesù ritirarsi spesso in disparte a pregare.

E non è questo il momento per parlare di preghiera, per dire tante cose belle sulla preghiera, ma per pregare insieme e fare di questa celebrazione un’occasione importante di preghiera: lasciamoci dunque guidare e portare per mano dalla liturgia che è la grande scuola di preghiera per noi discepoli.

Come ogni preghiera che si dice cristiana, il punto di partenza è l’ascolto, così come noi abbiamo ascoltato la parola di Dio e in particolare la pagina evangelica nella quale Luca condensa in tre quadri l’insegnamento di Gesù sulla preghiera.

Nel primo quadro, i discepoli vedendo appunto Gesù ritirarsi spesso in preghiera, gli domandano di essere resi partecipi del suo pregare, cosa che il Signore fa. Anche se a ben guardare Gesù non trasmette ai discepoli una nuova formula, perché le parole del Padrenostro attingono alla preghiera d’Israele (Qaddish e le Diciotto benedizioni). Quello che conta è a chi si rivolge la preghiera e Gesù per dire la sua relazione con Dio attinge alla tradizione del suo popolo che nella storia ha imparato a chiamare Dio Abbà, padre.

E noi ci siamo abituati a ripetere quasi meccanicamente questa che è diventata una formula, ma a ben guardare ai nostri contemporanei espressioni come ‘Dio’ e ‘Padre’ suscitano non pochi sospetti. Chi può parlare di Dio, trattandosi di una realtà non disponibile e pertanto al di fuori di ogni grammatica e sintassi, al di fuori del linguaggio umano? Qualcuno pensa che Dio non sia altro che una nostra creazione, la proiezione di un nostro bisogno, un’invenzione della mente umana per giustificare i nostri bisogni e le nostre debolezze… Se poi attribuiamo a Dio il titolo di “padre” e magari anche “onnipotente”, come non pensare ad una religione fondata sulla nevrosi collettiva?

Queste critiche vanno prese sul serio e contengono anche aspetti importanti e positivi: il riconoscere che ‘Dio’, anzi ‘Dio Padre’ è altro e oltre le nostre possibilità razionali e linguistiche è importante anche per noi, perché quando Gesù dice di chiamare Dio Padre, non lo dice come sublimazione della figura di nostro padre.

Quando ad Assisi Francesco si denuda davanti a tutti, prende i suoi vestiti e i soldi che aveva e dice: affinché si sappia che da questo momento io non chiamo più padre Pietro di Bernardone, ma Padre nostro che sei nei cieli, dice questa stessa operazione che i cristiani sempre devono custodire, perché se noi diciamo che Dio è Padre, lo diciamo solo in Gesù, con Gesù e per Gesù.

In Luca infatti Gesù dopo aver indicato a chi si rivolge la sua preghiera, al Padre, aggiunge subito: sia santificato il tuo nome. Santo in greco si dice a-gios, lett. ‘senza terra’; dicendo che Dio è Padre santo, diciamo che è un Padre ‘senza terra’, affermiamo la trascendenza di Dio, perché Dio non è una creatura scolpita dalla mente e dalla psiche dell’uomo, non è un parto del desiderio … ma è il Totalmente Altro che Gesù ci ha fatto conoscere, con il quale,  grazie a lui ci è permesso di stabilire una relazione filiale.

In questo senso le critiche ci aiutano a mantenere un’immagine di Dio purificata dalle nostre sovrastrutture: la paternità di Dio non è legata alla procreazione, è basata non sulla riproduzione biologica, né sull’appartenenza alla famiglia dei padri, ma per la libertà dei figli di Dio. Non a caso nella Bibbia la prima parola che Abramo si sente dire è: Abraham esci … Vai, diventa quello per cui sei stato creato, fai della tua vita un’opera d’arte, un capolavoro. Perché Abramo non poteva diventare credente stando nella sua terra? Se non per essere liberato dagli idoli, quelli sì frutto della mente e della paura dell’uomo.

Nel secondo quadro la preghiera è descritta soprattutto come preghiera di richiesta, di domanda. È questo infatti l’atteggiamento dell’amico che bussa anche nottetempo alla porta di un amico per sfamare un altro amico… è la preghiera diremmo di intercessione, che richiama quella di Abramo che abbiamo ascoltato nella lettura della Genesi.

È struggente la determinazione con cui Abramo si prende a cuore la sorte degli abitanti di Sodoma e di Gomorra ergendosi di fronte a Dio quasi a piegarne la volontà alla misericordia e al perdono. Abramo non si abbandona al lamento per i valori perduti, non si concede un’analisi psicosociale della decadenza, Abramo prega. E la sua preghiera non cerca rifugio nella comunione con Dio, ma è una preghiera che si fa preoccupazione per l’altro, sia pur esso peccatore, che Dio affida alla nostra responsabilità. Abramo risponde al grido del peccato, con un grido di intercessione. La preghiera di Abramo è una preghiera che si fa carico con responsabilità dell’altro e intercede presso l’Eterno per lui.

Certamente noi potremmo obiettare: ma non è questo un ambito sterile? non è un ambito che ci fa eludere i problemi, che li scavalca, per così dire, senza risolverli? Era davvero la preghiera l’unica cosa che poteva fare Abramo? Quante volte abbiamo pensato che pregare fosse una facile evasione dalle nostre responsabilità? Certo, per chi ha poca o nessuna fede non c’è altro linguaggio che quello delle iniziative umane. Il credente, tuttavia, non può limitarsi a questo. Per lui e per noi  c’è lo spazio inesplorato della fede che abbraccia e penetra ben più nel profondo delle vicende umane.

Scrive il card. Martini: «Intercedere etimologicamente significa “fare un passo in mezzo”, fare un passo in modo da mettersi nel mezzo di una situazione. […] Intercedere è stare là, senza muoversi, senza scampo, cercando di mettere la mano sulla spalla di entrambi e accettando il rischio di questa posizione». Intercedere non è pregare genericamente per … ma mettersi in mezzo, entrare nel cuore della situazione, stendere le braccia a destra e a sinistra per unire e pacificare.

Non è questo il gesto di Gesù sulla croce, l’atteggiamento del Crocifisso, che è l’unico giusto che l’Eterno trova sulla terra? Egli è colui che è venuto per porsi nel mezzo di una situazione insanabile di paura tra uomo e Dio, di una inimicizia ormai irrimediabile e senza soluzione umana. Gesù ha potuto mettersi nel mezzo perché era solidale con le due parti in conflitto, anzi i due elementi in conflitto coincidevano in lui: l’uomo e Dio.

Ed è per mezzo di Gesù che anche noi possiamo intercedere per la nostra umanità, per la giustizia, per il nostro mondo malato! Intercedere non è pregare per qualcuno, affidandolo magicamente al Signore perché provveda lui, ma è stare di fronte alle persone, alle situazioni e vederle così come le vede il Signore, che in Gesù si è fatto carico anche dei nostri errori, dei nostri peccati.

La preghiera dei figli ci rende fratelli in umanità: ciascuno di noi oggi porta al Signore tutti coloro per i quali vuole pregare e intercedere, ma come Abramo non preghiamo solo per i nostri cari, per i nostri motivi personali e famigliari, innalziamo il nostro grido di intercessione per il nostro mondo.

Perché, come narra l’ultimo quadro del vangelo, pregare è anche saper domandare al Padre cose buone per la vita, e la cosa più necessaria per la vita, ci dice Gesù, è il dono dello Spirito stesso di Dio. Questo è ciò che dobbiamo in definitiva domandare all’Eterno ed è il dono che invochiamo oggi insieme.