V DOPO PENTECOSTE - Gv 12, 35-50


(Gen 17, 1-16; Rm 4, 3-12; Gv 12, 35-50)

Il tema che la parola di Dio oggi ci consegna è quello della fede, e non lo fa in termini astratti, cosa sia credere e cosa sia il non credere, ma attraverso alcune figure come i contemporanei di Gesù, ma soprattutto mettendoci di fronte al credente per eccellenza, al patriarca Abramo, nostro padre nella fede, considerato tale dalle tre grandi religiosi monoteiste: sia ebrei, cristiani e musulmani lo venerano come grande uomo di fede.

Sappiamo come nei primi capitoli della Genesi si racconti del coraggio di Abramo nel lasciare il suo paese d’origine dando fiducia alle parole dell’Eterno che gli ha promesso un terra ricca e fertile e una discendenza numerosa. Senonché, trascorso un po’ di tempo e ormai all’alba dei suoi ormai novantanove anni, Abramo si trova senza terra e senza discendenza. Allora che cosa fa? d’intesa con la moglie decide di concepire un figlio da una delle sue serve, Agar, la quale infatti gli genera Ismaele.

Questa di Abramo è una decisione concreta, suggerita dal senso pratico, ma potremmo considerarla anche una sorta di mancanza di fede. Potremmo leggere nel pensiero di Abramo: visto che la promessa di Dio tarda a realizzarsi, mi do da fare, ci penso io… Così pensa di cavarsela Abramo, ma cosa ne pensa il Signore?

La risposta è nelle parole del capitolo 17 che abbiamo ascoltato oggi: «Dice il Signore, io sono El Šadday (il Dio della steppa o della montagna, non l’onnipotente! Non è un Dio astratto, teorico, è il Dio che sperimenta nel suo cammino concreto di ogni giorno) fidati di me, faccio alleanza con te, sto dalla tua parte, mi prendo cura di te e ti rinnovo la promessa: ti renderò numeroso».

E conferma la parola con due segni: anzitutto gli cambia il nome. Non sei più Avràm -padre di Aram, ma Abramo -padre dei popoli. Così anche tua moglie non si chiamerà più Sarai – mia principessa, ma Sara – principessa di tutti. Nel cambiamento del nome è scritto il cambiamento del destino di una vita.

Il secondo segno è la circoncisione. Un segno indelebile sul corpo che indica un’ appartenenza definitiva e un’identità precisa … infatti quando nella storia si volle perseguitare il popolo ebraico, si cominciò col proibire la circoncisione.

Paolo nella lettera ai Romani la definisce «il sigillo» che conferma la fede di Abramo; il sigillo viene posto su una fede che c’è già, Abramo si fida del Dio della steppa ancor prima della circoncisione, anche se è una fede, e questo ci dà consolazione, che non è fanatismo, come abbiamo visto è combattuta e dialettica. In questo senso Abramo è padre di tutti, non solo del popolo ebraico, ma di tutti i credenti, anche dei discepoli del Cristo, di tutti coloro che credono e che si fidano di Dio.

Questa fede di Abramo, però Gesù non la incontra in coloro che sono discendenti di Abramo e che si fanno vanto di lui. Mi sembra di poter raccogliere intorno a tre aspetti la reazione del Signore.

Anzitutto di fronte a chi non crede in lui Gesù cita una frase di Isaia che dice così: «Ha reso ciechi i loro occhi e duro il loro cuore, perché non vedano con gli occhi e non comprendano con il cuore e si convertano, e io li guarisca!».

Noi quando incontriamo persone che hanno abbandonato la fede o non l’hanno mai avuta, ricorriamo in genere a giustificazioni psicologiche, sociologiche e culturali: «Perché non sono stati educati in famiglia, perché hanno incontrato amicizie sbagliate; perché sono stati segnati da esperienze negative… », invece Gesù dice: «…perché non vedano con gli occhi e non comprendano con il cuore e si convertano, e io li guarisca!».

Mi sembra voglia dire: la fede può essere favorita da circostanze esterne quali possono essere l’ambiente familiare, l’educazione ricevuta, la scuola e la cultura nella quale siamo immersi, ma nessuna di esse è decisiva. Non è la famiglia, né la scuola, né la cultura in cui sono cresciuto, né l’ambiente sociale al quale appartengo che fanno di me un discepolo, un credente.

La fede non è ereditaria, anzi dirò di più, non dipende solo da un atto della nostra volontà. La questione è talmente importante che Benedetto XVI ha inteso invitare tutta la Chiesa a un Anno della fede che avrà inizio l’11 ottobre 2012 nel 50° anniversario dell’apertura del Concilio Vaticano II, e lo ha fatto con una lettera dal titolo: La porta della fede.

A questa porta a noi è dato di bussare, come dice Gesù: «Cercate e troverete; bussate e vi sarà aperto» (Mt 7,7). Non possiamo aprire, ma possiamo bussare. Non dipende da noi trovare, ma dipende da noi cercare.

L’esperienza della fede è di essere cercato più ancora che quella di cercare. Abramo non cercava Dio, credeva che i suoi idoli gli bastassero. Dio lo ha cercato e lo ha chiamato. Mosè non cercava Dio, non ci pensava proprio. Dio lo ha cercato e lo ha chiamato. Lo stesso vale per i Dodici: Gesù li ha cercati e chiamati. Non possiamo darci la fede, ma possiamo chiederla a Dio che solo può guarire i nostri cuori induriti e i nostri occhi accecati.

Ed è proprio questa la seconda cosa che mi ha incuriosito: il riferimento al cuore e agli occhi, come a dire che la fede passa di lì, da queste dimensioni della nostra condizione umana: il cuore, cioè la relazione affettuosa, l’intimità, i sentimenti, l’amore e poi gli occhi, ovvero la capacità di leggere le situazioni, di studiare, di vedere i sentieri di Dio, la nostra intelligenza.

La fede è fatta di cuore e di sguardi perché consiste nell’incontro con una persona e non con un’idea, la fede è fidarsi di Gesù e non di un principio o di un’astrazione: «Chi crede in me, non crede in me, ma in colui che mi ha mandato…».

Se ripensiamo alla nostra biografia, alla storia della nostra fede credo che anche noi nella vita ci sono stati dei momenti in cui la fede era fatta più di cuore, di emozioni, di sentimenti, di affettività in cui magari sentivamo il Signore più vicino che mai. Ma abbiamo avuto anche altri momenti in cui la fede si è fatta più interrogativa, attraversata dalle domande e dai dubbi che hanno fatto irruzione per i più disparati motivi e che hanno messo in subbuglio la nostra riflessione e la nostra intelligenza.

Il Signore ci ricorda che la risposta al dono della fede deve tenere insieme le due dimensioni perché la fede non si riduca a una dottrina o a una speculazione astratta, e tanto meno a un sentimento che oggi c’è ed è intenso e domani svanisce. La fede è sempre fidarsi di una persona, affidarsi a Gesù con il cuore e con gli occhi. È abbandono, disponibilità, ascolto di lui con il cuore e con l’intelligenza.

Infine, c’è un terzo e ultimo aspetto che mi ha fatto riflettere, quando Giovanni annota che «Molti capi credettero in Gesù ma non lo dichiaravano … perché amavano la gloria degli uomini più che la gloria di Dio». Succede qualcosa che penso accada anche a noi più frequentemente di quello che pensiamo e di cui la storia della Chiesa è ricca di esempi e di vicende che in qualche modo ricalcano l’esperienza di quell’altro personaggio del vangelo di Giovanni, si tratta di Nicodemo, un capo dai farisei che va da Gesù di notte perché non vuole farsi vedere dai suoi colleghi…

Per un verso c’è la solidità della fede di Abramo che con tutto il suo travaglio interiore continua a fidarsi di un Dio che promette e che lo sospinge ad andare avanti. Ma c’è anche la fragilità della fede di chi capisce che di Gesù ci si può fidare, anche se non fa’ il passo decisivo perché troppo condizionato dal giudizio degli altri. C’è la fragilità della fede di chi non è pronto a pagare di persona.

Perché di questo si tratta, Gesù non ci chiede di esibire la fede come un distintivo o una bandiera o una piattaforma di valori da imporre, perché Gesù ci dice che il regno di Dio agisce come lievito, vive e cresce come un seme, anche se nel campo cresce la zizzania. Piuttosto la questione è quanto io sono disposto a spendermi, a metterci del mio, a pagare di persona?

Ci troviamo nella stessa condizione che più volte Gesù riconobbe essere propria dei suoi discepoli quando dice loro: «gente di poca fede» (Mt 6,30; 8,26; 16,8; 17, 20), ma proprio come loro c’è una cosa che possiamo fare, ed è pregarlo insieme dicendo: Signore, «Accresci in noi la fede!» (Lc 17, 5).