XII DOPO PENTECOSTE - Mt 10, 5b-15

Mi parrebbe più che sufficiente soffermarci sul v.7, quando Gesù dice: Strada facendo annunciate che il regno dei cieli/di Dio è vicino. Niente di più e niente di meno. Questo in estrema sintesi il contenuto della evangelizzazione.
Prima ancora di entrare nelle modalità, nelle cose da fare, nella coerenza della nostra vita, sappiamo di ricevere questo dono da Dio. Il regno di Dio è vicino. A noi tocca annunciarlo, ma anzitutto il regno di Dio è già tra noi.
Che cos’è questo regno di Dio? sono parole che per chi non famigliarità con la Scrittura possono suonare ambigue, infatti nella storia talvolta si è preteso individuare il regno di Dio con un regno tout court, con i suoi confini, i suoi eserciti, le sue leggi… Gesù però non ha fondato uno stato, nemmeno una nuova religione, Gesù ha reso tangibile il modo in cui Dio regna, il modo di fare di Dio, vale a dire che Dio è vicino, Dio è dalla nostra parte, dalla parte dell’uomo e della donna.
Che è il cuore del Vangelo. Nel cap. 10 Matteo non fa altro che riprendere il Discorso della Montagna (cap. 5-7) per dire che Dio è vicino al povero, al mite, al perseguitato, al puro di cuore, a chi piange, a chi cerca disperatamente la giustizia. E i suoi discepoli, come dice nel cap. 10 sono inviati per continuare questa missione, questa evangelizzazione.
Ed è qui a mio parere che sgarriamo di più, è su questo punto che la chiesa è più debole. Per troppo si è preoccupata di mantenere le proprie strutture, per troppo tempo è stata centrata su di se, al punto che ci sono chiese ricche di beni che predicano gratuità, ma esse non sanno nemmeno cosa sia; ci sono chiese che si reggono sull’efficienza dei mezzi di comunicazione, ma paradossalmente comunicano se stesse e le proprie iniziative e non Gesù Cristo; ci sono chiese che patteggiano coi potenti i loro privilegi… per garantirsi il futuro e non per annunciare il Vangelo della pace, della giustizia e della nono violenza.
Siamo sempre nella condizione di rischiare di perdere di vista il fondamento che Dio è vicino all’uomo non nel tempio, non nelle cose che facciamo al tempio, non nelle nostre opere religiose, ma, come dice Gesù nel vangelo di oggi: Dio è vicino ai malati, ai disperati, ai lebbrosi di oggi, agli indemoniati di oggi… queste sono le azioni più sacre, più sante! E sono le condizioni dettate nel discorso della Montagna: Dio è lì vicino all’uomo e alla donna che piangono, come ha fatto Gesù. Ma le nostre chiese sono lì? Sono lì vicine al sacramento dell’uomo e della donna?
Sabato 4 agosto quattro braccianti sono morti ed altre 5 persone sono rimaste ferite in uno scontro avvenuto nel foggiano tra un furgone chiuso con a bordo otto migranti che avevano finito di lavorare nei campi ed un tir carico di pomodori.
Lunedì 6 agosto sono morti altri 12 braccianti, sempre nel foggiano, vicino Lesina, in un altro incidente con modalità simili. Le vittime viaggiavano, insieme ad altre tre persone, rimaste ferite, a bordo di un furgone che si è scontrato frontalmente con un tir.
Lavoratori sottoposti a ritmi sfiancanti di 10-12 ore al giorno, spesso in nero, in condizioni atmosferiche e climatiche usuranti, senza il riposo settimanale, senza il rispetto della normativa sulle pause, per pochi euro all’ora… Non si tratta di fatalità, ma di “vittime di una guerra silenziosa che si combatte contro i braccianti, pagati salari miseri, spesso a cottimo, e costretti a vivere – soprattutto se stranieri – in ghetti malsani privi di tutto. Dalla Puglia alla Basilicata, dalla Calabria alla Sicilia, sono centinaia gli insediamenti di fortuna in cui abitano stagionalmente i lavoratori agricoli: masserie abbandonate e in rovina, tendopoli costruite con legna e cartone, ex fabbriche in disuso. Il più noto di questi, il cosiddetto ‘Gran ghetto’ di Rignano Garganico, arriva a ospitare all’apice della raccolta di pomodori in estate, fino a mille persone”[1].
Ecco annunciare il Vangelo, non significa tanto andare in giro a predicare una dottrina, quanto piuttosto essere accanto a chi ha fame e sete di giustizia, come farebbe Gesù. Non sarà l’ammodernamento del messaggio rivestito in maniera accattivante a farci annunciare efficacemente il Vangelo, ma la nostra capacità di agire come farebbe Gesù oggi, vale a dire: stando accanto, sostenendo, lottando, impegnandoci con chi è anziano, malato, povero, debole, sfruttato. Cose direi pressoché quotidiane. Se non torniamo lì, la nostra evangelizzazione avrà la consistenza di un nuvola d’incenso…
Lo scriveva nell’Esortazione apostolica Evangelii nuntiandi Paolo VI (1975), di cui il 6 agosto abbiamo ricordato i 40 anni dalla morte: «L’uomo contemporaneo ascolta più volentieri i testimoni che i maestri, o se ascolta i maestri lo fa perché sono dei testimoni» (n.41).
Lo sanno i genitori che i figli prima ancora di sentire le loro prediche, li osservano, li aspettano al varco della prassi, delle scelte. Lo sanno gli insegnanti che per trasmettere una cultura più che i concetti e le nozioni che uno studente può leggere benissimo su un libro, tutto si gioca nella capacità di trasferire un metodo, una passione… perché ti sente accanto in questa meravigliosa avventura che è la vita.
Che è l’evangelizzare, perché di questo si tratta. Leggevo in questi giorni un’inchiesta il cui titolo è già di per sé emblematico: La metà dei credenti italiani pratica una religione fai da te. Vale a dire che milioni di persone costruiscono un proprio percorso spirituale sganciato dalle fedi organizzate e dalle strutture tradizionali. Nel mondo la religione maggioritaria pare essere quella personale, al punto che qualcuno, esagerando ovviamente, dice che ci sono tante religioni quante sono le teste delle persone. Il 38% dei francesi crede nell’astrologia, il 35% degli svizzeri nella divinazione, il 20% degli statunitensi nella reincarnazione… e in alcuni Paesi dell’Europa occidentale la maggioranza della popolazione, soprattutto dei giovani, si dichiara “spirituale ma non religiosa”.
E noi dobbiamo metterci accanto anche a queste situazioni, questa è la realtà con cui abbiamo a che fare in questo tempo, in questa epoca che non va semplicemente giudicata, sbrigativamente condannata, ma va ascoltata, e mi pare questo il principale ostacolo che da sempre caratterizza la condizione dei credenti: non sappiamo ascoltare. Cosa che a ben guardare non è per nulla nuova, già Geremia lo denunciava nella prima lettura.
Tra l’altro Gesù conosceva bene il libro del profeta, sapeva bene la vicenda di questo ragazzo chiamato giovanissimo a mollare tutto, divertimenti, carriera e persino la famiglia. Sarà infatti celibe, non si sposerà, caso strano in tutto il Primo Testamento. Non conoscerà consenso presso le autorità del suo tempo, verrà emarginato, che è quello che accade anche al Cristo.
Ebbene Geremia, che aveva iniziato la sua vocazione nel 627 quando aveva all’incirca 20 anni, nella lettura di oggi lo sentiamo dire: Sono ventitré anni che vi parlo e vi annuncio la parola di Dio. Quindi Geremia nella maturità, intorno ai 43 anni quando ha tutto il diritto di aspettarsi dei risultati dalla sua predicazione e vorrebbe vedere i frutti nella sua gente, è costretto a riconoscere: Ma voi non mi avete ascoltato, e lo ripete quattro volte: Ma voi non mi avete ascoltato (vv.3.4.7.8).
Non ascoltiamo. Non ascoltiamo in generale e non solo la parola di Dio. Non ascoltiamo la sua parola, non ascoltiamo gli eventi, non ascoltiamo quello che la vita ci dice ogni giorno, non ascoltiamo il grido degli sfruttati che muoiono a raccogliere pomodori, non ascoltiamo il lamento dell’anziano, non ascoltiamo l’urlo di pace del migrante… Questo è il problema, l’indurimento del cuore, l’ostinazione della nostra mente. Perché ascoltare ci costringe a mettere in discussione le nostre convinzioni, ci procura una certo tormenta interiore, ci costringe a entrare nell’intimo tumultuoso della coscienza così spesso distratta e superficiale.
Eppure Gesù ci dice che Dio è sempre lì, che è fedele al suo modo stare nel mondo e di regnare che è quello di essere accanto alle persone per liberarle, perché questo è il senso dell’evangelizzazione: liberare l’uomo, la donna, il giovane, l’anziano, l’adulto che sia. Perché chi soffre non è libero, chi è affamato non è libero, chi è sfruttato non è libero… come chi si lascia abbindolare dalle fake news non è libero, anche chi non sa motivare le sue scelte non è libero… Ora la storia umana è sotto questo segno. La missione di Gesù che è anche la missione profetica del suo popolo è fare questo passaggio mai compiuto da un regime di necessità a un regime di libertà.
Come discepoli di Gesù, preti, suore o laici non è importante, l’importante è questa consapevolezza che siamo un popolo mandato ad annunciare che Dio è vicino. Evangelizzare non è un affare o un progetto aziendale, non è uno spettacolo per contare quanta gente vi ha partecipato grazie alla nostra propaganda, ma è liberare costantemente dai faraoni che occupano l’anima e il corpo e le vite di tanti intorno a noi.
Liberazione che sappiamo completa solo quando saremo faccia a faccia con lui, ma che possiamo e che dobbiamo cominciare col renderci vicini, col farci prossimi a quelle situazioni che tutti vorrebbero evitare.
Papa Francesco ha voluto riprendere la sollecitazione di Paolo VI con l’esortazione apostolica Evangelii gaudium (2013), il cui titolo dice appunto di che cosa c’è bisogno oggi per annunciare il vangelo: Evangelii gaudium, vale a dire con gioia, quella gioia di cui appunto papa Francesco è testimone quotidiano perché il bene tende sempre a comunicarsi. La vita si rafforza donandola e s’indebolisce nell’isolamento e nell’agio. Di fatto, coloro che sfruttano di più le possibilità della vita sono quelli che lasciano la riva sicura e si appassionano alla missione di comunicare la vita agli altri (nn.9-10).
(Ger 25,1-13; Mt 10,5-15)
(Is 45, 20-24; Mt 20, 1-16)