VI DOPO L’EPIFANIA - Mt 12, 9b-21


(Mt 12, 9-21)

Sono due gli spunti di riflessione che il vangelo di Matteo mi suggerisce. Il primo è legato alla questione del sabato, al significato che il rispetto di questo giorno aveva e che ancora possiede per Israele e cerchiamo di comprendere cosa ha da dire Gesù.

Il secondo spunto è suggerito dalla seconda parte del vangelo che proprio in seguito alle parole sul sabato ci fa sapere che i farisei decidono di togliere di mezzo Gesù. Non di imprigionarlo, di mandarlo in esilio… ma addirittura di metterlo a morte e vedremo la sua reazione.

Proprio il fatto che si decida di metterlo a morte ci deve far pensare che le parole di Cristo sul sabato siano molto più pericolose del dire semplicemente che l’uomo è fatto per il sabato e non il sabato per l’uomo. Anche perché queste stesse parole le troviamo sulla bocca di altri rabbini, come rabbi Jonathan contemporaneo di Gesù che diceva: «Il sabato è nelle vostre mani, come è scritto: il sabato è per voi» (Talmud, Joma 85b). «Il sabato è stato dato a voi, non voi al sabato» (Mekiltà). Quindi non dobbiamo sbrigativamente risolvere la questione come se Gesù mettesse in discussione la necessità di vivere il sabato, anche perché notiamo che egli stesso si attiene all’usanza di andare in sinagoga ogni sabato. Se al tempio venivano celebrati i sacrifici attraverso la mediazione dei sacerdoti e dei leviti, la sinagoga era lo spazio come dire più «democratico» della spiritualità ebraica, il luogo dove si leggeva la Scrittura e dove anche un laico come Gesù era chiamato a darne un’interpretazione.

Possiamo pensare che i suoi commenti risultassero interessanti e facessero discutere lungo la settimana se, come abbiamo sentito, viene stimolato con domande provocatorie come quella di oggi: È lecito guarire in giorno di sabato? E i farisei, guardate che sensibilità, pongono la domanda davanti a un povero disgraziato che ha una mano paralizzata, un uomo cioè che non è in grado di lavorare e che si trova a mendicare per guadagnarsi da vivere… siamo di fronte a una vera e propria provocazione nei confronti di Gesù e a una grave umiliazione per quell’uomo.

A questo punto più o meno inconsapevolmente noi ci schieriamo subito dalla parte del Signore guardando con una certa superiorità questi farisei che si dimostrano disumani. Il problema è che credono di essere l’autentica interpretazione della parola di Dio, pensano di essere i detentori della volontà di Dio. Lo scontro sta proprio in questo essere messi in discussione dall’ autorità di Gesù che smonta letteralmente il castello delle mille regole che loro hanno costruito, per restituire al sabato il suo vero significato.

Guardate che non siamo lontani da questo modo di pensare quando diciamo che «il cristiano è quello che va a messa». A parte il contenuto dell’affermazione, ma chi siamo noi per dire una cosa del genere? Chi può dire che uno è cristiano e l’altro no in base a una pratica religiosa? Ecco il rischio del fariseismo è sempre attuale! Possiamo forse prendere il posto di Dio per giudicare la coscienza di un uomo o di una donna?

Infatti alla domanda dei farisei: È lecito guarire in giorno di sabato? Gesù risponde che di sabato è lecito fare del bene. La conclusione non è che il sabato è abolito! Non voglio dire infatti che andare all’eucaristia domenicale sia facoltativo, ma al tempo stesso devo dire anche che l’osservare il precetto domenicale non è automaticamente segno di fede.

Occorre che ci immergiamo nella profonda spiritualità che porta Gesù ad andare in sinagoga di sabato per vivere questo giorno, che per noi è la domenica, con fede.

Rimanendo al dato biblico: cos’è stato il primo oggetto santo nella storia biblica? Forse un altare? Forse una montagna? Forse un santuario? La parola qadosh «santo» viene usata per la prima volta nella Genesi riferendosi proprio al giorno di sabato: E Dio benedisse il settimo giorno e lo santificò (2,3). Nella creazione a nessun oggetto viene attribuito il carattere di santità, perché nella Scrittura ciò che conta è la santità del tempo. È stato soltanto dopo che il popolo cedette alla tentazione di adorare un oggetto, un vitello d’oro, che fu ordinata la costruzione del Tabernacolo.

Questa idea della santità del tempo, più che delle cose, è di grande attualità anche per noi che per sei giorni viviamo sotto la tirannia delle cose, dello spazio. È una tirannia che ci governa con la corsa al potere. Viviamo gran parte del nostro tempo per conquistare spazio, cioè potere sulle cose, sugli altri… La domenica ci libera dalla tirannia dello spazio e ci rimette in sintonia con la santità del tempo. La domenica è un tempo in cui la méta non è l’avere ma l’essere, non l’essere in credito, ma il donare; non il controllare, ma il condividere; non il sottomettere, ma l’essere in armonia (Heschel).

La domenica come giorno di riposo dal lavoro non è semplicemente per recuperare le energie perdute e prepararci alle nuove fatiche, come se servisse solo ad accrescere la nostra efficienza per il lunedì… «Non è il sabato al servizio dei giorni feriali, sono invece i giorni feriali che esistono in funzione del sabato» dice la tradizione ebraica. E ancora ricorre a questa suggestiva immagine: «Gli angeli hanno sei ali, una per ogni giorno della settimana con cui cantano la loro lode; ma essi rimangono silenziosi il sabato, poiché è il sabato stesso che eleva un inno a Dio».

Un amico di ritorno da Israele mi raccontava di aver visto sulle colline di Hebron i palestinesi che coprivano con un tendone un angusto spazio di terreno dove si progettava di costruire una piccola, incredibilmente piccola casa in mattoni. Perché il tendone? perché se i militari se ne accorgono distruggono tutto quello che trovano in corso d’opera. Occorre arrivare al tetto di nascosto, perché solo allora c’è una sorta di tutela legale. E così ci si prepara con astuzia e pazienza. I materiali necessari per la costruzione vengono portati di nascosto sui carri coperti dalla paglia per gli animali e poi nascosti sotto il tendone o in altri anfratti. Quando arriva la mezzanotte del venerdì, che segna appunto l’inizio dello shabbat che arresta ogni attività per gli ebrei, tutte le braccia del villaggio accorrono e nel sabato che segue in 24 h si costruisce fino al tetto, il tutto sempre coperti dal tendone di plastica. Insomma: un giorno una casa. Notava il mio amico: «Che contraddizione vedere un lavoro così frenetico nel giorno del riposo ebraico nel quale, secondo gli stretti osservanti, non è neppure consentito lo sforzo di accendere la luce… ».

È proprio su questa contraddizione che interviene Gesù: ma come vorresti considerare che Dio stia con te perché lo ringrazi e lo lodi per la vita, quando di fronte a un uomo che soffre perché ha la mano paralizzata tu, in nome di Dio, volti la faccia dall’altra parte! Ma Dio ama più l’uomo della legge!

Di fronte a questa denuncia ecco che si scatena la reazione violenta: Gesù va eliminato! Non è una reazione spropositata, ma è la reazione propria di chi avverte che costui è pericoloso perché mette in discussione quel sistema religioso con il quale si arriva a controllare gli altri.

Ebbene, come vive il Signore questa ostilità, come reagisce alla sua condanna a morte? Matteo ci dice che Gesù ha spiegato il suo stato d’animo ricorrendo alle parole di Isaia, in quella che è la più lunga citazione del Primo testamento in Matteo. Voglio pensare che forse erano le stesse parole che Gesù aveva letto prima in sinagoga. È un passo tratto dal cap. 42, il primo dei quattro canti del Servo.

Gesù dice: ecco sono come il popolo eletto che l’impero babilonese voleva cancellare dalla faccia della terra. Il popolo in quei momenti aveva bisogno di forza, di potere per reagire a quella violenza e Dio invece cosa fa? Dio affida il futuro a un servo, a un umile da lui amato pieno del suo Spirito, il quale non contesta, non grida, non va in piazza… Tutte frasi negative che stanno a dire come il servo non eserciterà alcuna violenza, non condannerà nessuno, non reagirà mettendosi a capo di una rivolta. Certo anche il suo scopo è quello di far trionfare la giustizia, ma il modo in cui raggiungerà questo traguardo non sarà quello di vincere la violenza con un’altra violenza, di ribaltare un potere con un altro potere… ma il modo sarà quello che Gesù annuncia nelle Beatitudini: la mitezza.

Gesù infatti di fronte alla violenza si sottrae, non reagisce con la stessa aggressività. Si pone su altro piano che non è quello della superiorità che sarebbe ancora una forma sottile di violenza, ma sottraendosi sposta il pensiero dal piano della materia, dello spazio dove opera la forza, al piano dello spirito dove opera la ragione del cuore, appunto la mitezza.

«L’uomo mite, diceva Martini, è colui che, malgrado l’ardore dei suoi sentimenti rimane duttile e sciolto, non possessivo, interiormente libero, sempre sommamente rispettoso del mistero della libertà, imitatore in questo di Dio che opera tutto nel rispetto dell’uomo e muove l’uomo all’obbedienza e all’amore senza mai usargli violenza. La mitezza si oppone così a ogni forma di prepotenza materiale e morale».

La persona che celebra il sabato, che celebra la santità del tempo e non la violenza del potere che occupa lo spazio, diventa mite e impara a non rispondere al male con il male. Dove il male non sono soltanto le violenze fisiche, ma pure quelle piccole malignità della conversazione a cui noi siamo spesso tentati di rispondere con altrettante piccole cattiverie. Tutte le insinuazioni a cui vorremmo rispondere con altrettante insinuazioni. Tutte le piccole allusioni offensive che infiorano purtroppo il nostro parlare e quello altrui, a cui siamo tentati di replicare con altre allusioni offensive.

Norberto Bobbio diceva che la mitezza è la più impolitica delle virtù, anzi è l’altra faccia della politica. Il mite, scriveva, «non apre mai il fuoco e quando lo aprono gli altri, non si lascia bruciare, anche quando non riesce a spegnerlo». Chiediamo al Signore che dal vivere la domenica con fede impariamo la mitezza, la più impolitica delle virtù.