V DOPO IL MARTIRIO DI S. GIOVANNI IL PRECURSORE - Mt 22, 34-40


(Dt 6, 4-12; Mt 22, 34-40)

Verrebbe da tenerle silenziosamente nel cuore queste parole di Gesù, parole che hanno la capacità non tanto di darci una sintesi come vorrebbe il dottore della Torah che lo interroga con fare provocatorio, ma di portarci al cuore appunto della nostra fede, al cuore direi di ogni religione: qui è l’essenza di ogni esperienza religiosa e morale, è l’impostazione stessa di un’intera esistenza, della vita di una persona. Certo Gesù è audace nell’accostare in un’ardita connessione l’amore per Dio e l’amore per il prossimo. Anzi il secondo è simile al primo, dice il Signore,  non è identico, ma è necessario quanto il primo. «Chi infatti non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede» (1 Gv 4,21), scrive Giovanni.

1.Ma come è possibile amare Dio? noi amiamo un volto, una persona, amiamo qualcuno che tocchiamo, con cui parliamo e che ascoltiamo… ma come possiamo amare Dio? E poi «con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente» dice Gesù. Come è possibile amare Dio così? Il Deuteronomio ci risponde con le parole del cap.6 che è la professione di fede di Israele. Quando dico professione di fede pensiamo  anzitutto a una dichiarazione propria del credente, siamo infatti abituati a dire: Credo in un solo Dio Padre… Mentre la professione di fede d’Israele, lo Shema’  è l’imperativo di Dio al credente: «Ascolta!».

Non compare mai in questi versetti[1] il verbo «credere». Ed è significativo perché all’inizio della fede non c’è un atto orgoglioso e superbo dell’uomo che afferma di credere, come conquista della sua ricerca intelligente… La spiritualità biblica non dirà mai che Dio è l’oggetto della nostra ricerca! La spiritualità dell’uomo biblico riconosce che prima c’è l’iniziativa dell’Eterno. Infatti l’invito: «Ascolta Israele» si rivolge al popolo d’Israele appena liberato dalla schiavitù d’Egitto.

Ma perché, tra i tanti verbi che Dio può rivolgere al suo popolo appena liberato, tra le tante raccomandazioni che potrebbe suggerirgli, sceglie proprio quell’«Ascolta»? Perché gli ebrei schiavi in Egitto avevano già «visto»! Essi avevano visto i prodigi e i miracoli che Dio aveva compiuto nei confronti degli egiziani: la trasformazione delle acque del Nilo in sangue, le tempeste di fuoco e di grandine, il perpetuarsi del buio oltre l’alba. Avevano visto la miracolosa apertura del mar Rosso. Erano stati presente e avevano visto il monte Sinai tremare al fuoco della presenza del Signore durante la promulgazione del decalogo (Elia Kopciowski)Ora dovevano «ascoltare» per imparare lo scopo per il quale il Signore aveva operato quei segni per renderli un popolo libero. Perché quando hai toccato con mano la cura e la tenerezza di qualcuno sei più disposto ad ascoltarlo, gli dai credito, davvero. Ascolti se hai visto.

E allora noi, più che sforzarci di amare, di vivere questo scarto invincibile e insormontabile tra le intenzioni e le relazioni quotidiane, proviamo a tornare lì a chiederci: ma cosa abbiamo visto di Dio nella nostra vita? Quali sono i segni della sua pasqua, del suo passaggio nella nostra esistenza? Sappiamo vedere e riconoscere come lui ci ha guidato, ci ha sostenuto, ci ha dato di sperare anche nella notte più fonda?

Solo allora e solo così potremo comprendere l’esigente amore che Dio domanda: «Con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le forze». Questo è il vocabolario dell’innamorato, sono le parole che descrivono l’esperienza di chi perde testa, cuore e forze… per un’altra creatura, e si rende conto che non può vivere così, ma anche perché sappiamo che nel momento in cui amiamo una persona «con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutta la mente» è a lei che affidiamo la nostra vita e diventa il nostro idolo. E nel momento in cui facciamo dipendere la vita da un altro o da un’altra, ci diamo delle aspettative che lei o lui o non potrà mai soddisfare perché anch’egli è nella stessa tua condizione e ciò rompe la giusta proporzione nelle tue relazioni per cui sarà causa di frustrazione, di delusione e di fraintendimento.

Quando abbiamo visto l’amore dell’Eterno per noi, allora gli restituiamo ciò che è suo, dopo che abbiamo sperimentato la sua cura per noi gli possiamo dire la nostra gratitudine «con tutto il cuore», cioè con affetto, perché Dio non lo amiamo solo a forza di ripetere preghiere con la bocca, ma lo amiamo «con tutto il cuore».

E poi «con tutta l’anima», cioè anche quando sembra che ci strappi l’anima, anche quando sembra domandare troppo, quando lo sentiamo lontano e non pare interessato a noi. Lo amiamo perché non dimentichiamo che invece ci è sempre stato vicino anche se non sempre noi siamo stati in grado di comprendere.

E infine «con tutte le forze», dice il Deuteronomio, mentre Gesù nel vangelo dice «con tutta la mente». Curiosa questa modifica con la quale Gesù ci dice la consapevolezza che la nostra vera forza è nella libertà di pensiero, non tanto nei muscoli, nei nostri poteri, perché il vero potere è nella mente, nel pensiero. Amo Dio così, come il mio pensiero. Lo amo come risposta a un amore che mi precede e che non dimentico.

2.E poi, l’altro comandamento: «Amerai il prossimo tuo come te stesso». Un comandamento che sembra non aver un legame con il primo, ma in realtà quel «come te stesso», lungi dall’essere una concessione al narcisismo che ci ammorba o al culto dell’apparenza e del frivolo… è per ricordarci di guardare a noi stessi come Dio ci guarda, vederci come creature che non sono mai troppo belle da annegare nella propria immagine, ma nemmeno così brutte da sentirsi rifiutate da Dio.

Dio ci ama di questo amore, un amore che sperimentiamo in due modi. Al v.4 del Deuteronomio leggiamo: Ascolta Israele: il Signore è il nostro Dio, unico è il Signore. Per noi dire «Signore» e dire «Dio» è del tutto indifferente, per noi sono sinonimi, non cogliamo le sfumature di significato che sono proprie della lingua ebraica, per la quale invece dire «Signore» significa evocare il Nome impronunciabile rivelato a Mosè che esprime la qualità divina della misericordia, della tenerezza di Dio; mentre dire «Dio» (‘Elohim) esprime il carattere della giustizia divina. È il nome del Dio giusto. Ed è molto significativo che nel dare un nome all’Eterno la qualità della misericordia sia espressa due volte, mentre quella della giustizia una volta sola. Questo perché l’Eterno stesso mette in rilievo che la misericordia supera le esigenze della giustizia. Se non fosse per la sua tenerezza noi non ci salveremmo!

E allora quell’amare il prossimo come noi stessi, è l’invito ad amare l’altro come il Signore vuole bene a noi, ovvero con misericordia e giustizia, ma con la misericordia al quadrato. Non è difficile essere rigorosi, esigenti e giusti… con gli altri, ma chiediamo al Signore di sovrabbondare nella misericordia e nella tenerezza, perché lui ci ama così. Con la misericordia al quadrato.

E questo costituisce per la tradizione biblica il primo fondamento della pedagogia e dell’educazione dei figli: Queste parole che oggi ti do, ti stiano fisse nel cuore, le ripeterai ai tuoi figli …  Sono davvero queste le parole che ripetiamo ai nostri figli e ai nostri nipoti? Che cosa trasmettiamo ai nostri piccoli perché crescano nella certezza di essere amati da Dio?

Ogni domenica ascoltiamo la Parola e facciamo memoria dell’amore di Dio che Gesù ci ha donato, per imparare ad amare.

[1] Il testo completo dello Shema’ è composto da tre testi biblici Dt 6,4; Dt 11,13; Nm 15,37.