II DI QUARESIMA o Domenica della Samaritana - Gv 4, 5-42


Quest’ultima parola del padre rivolta al figlio maggiore: Tuo fratello era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato (v.32), è la stessa parola che il padre rivolge ai servi quando chiede loro di preparare il banchetto per il figlio minore che è tornato: Questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato (v.24).

È come un ritornello che scandisce le due scene del racconto di Gesù.

Fa’ da conclusione alla prima parte che racconta del figlio minore e di tutta la sua vicenda di perdizione e di lontananza per poi ripetersi a chiudere la scena dove si parla del figlio maggiore e delle sue resistenze ad assecondare un padre così generoso e disposto a perdonare in maniera del tutto gratuita quel figlio disgraziato!

La differenza, perché c’è una differenza, tra le due frasi pronunciate dal padre sta nel fatto che nella prima si rivolge ai servi e parla del figlio, nella seconda si rivolge all’altro figlio parlandogli del fratello.

Mi sembra questo il percorso che la parola di Gesù ci fa compiere. Partiamo anzitutto da questa immagine di un Dio talmente impazzito d’amore per noi quando andiamo fuori strada che non vede l’ora che torniamo a lui. Quando invece noi siamo piuttosto inclini ad aspettarci una qualche punizione, un qualche castigo.

Non ci sono parole per dire di un Dio così. Ci ha provato Osea, il profeta innamorato, il quale trasferisce la sua drammatica vicenda personale – si era innamorato di una prostituta del tempio di Baal che non riusciva proprio a mollare nonostante venisse continuamente tradito – la trasferisce ai rapporti tra il popolo dell’alleanza e Dio.

Osea dice: se io sono così innamorato di questa donna che sono pronto a perdonarla ogni volta, di quanto amore sarà capace il nostro Dio che, nonostante il popolo lo abbia tradito a più riprese, è sempre pronto a ridare fiducia, a rimettersi in gioco e a rifare alleanze?

Osea non smette di amare perché deluso dal tradimento, ma ama ancora di più. Così fa Dio di fronte al nostro tradimento, alle nostre infedeltà: si innamora ancora di più. Questo ci racconta Gesù, di questo Dio ci parla la sua vita, la sua cura, la sua attenzione. Ma non solo.

L’esperienza del perdono è certamente una grazia, un dono gratuito di Dio che ci reintegra nella relazione filiale. Per quante ne possiamo combinare, per quanto possiamo allontanarci da Dio, Gesù ci dice che proprio perché è Dio, non si stanca mai di amarci, di volerci bene, non sta lì a calcolare i nostri errori, le nostre miserie. Il padre ci considera sempre figli.

Ma appunto, non solo, il perdono che ricevo io, che ricevi tu, che riceve anche il nostro peggior nemico… stabilisce una diversa relazione tra noi, ci restituisce alla fraternità. Tu fratello era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato. Siamo fratelli in umanità proprio grazie all’amore che ciascuno di noi riceve da Dio. Siamo uguali per dignità pur diversi nei sentieri della vita, nelle scelte, nelle nostre personalità e nelle nostre storie.

Magari confidiamo nel perdono e nella misericordia di Dio nei nostri confronti perché altrimenti saremmo spacciati. Ma credere che l’altro è amato ugualmente da Dio, anche quando me ne fa di tutti i colori, è più complicato.

E ce ne usciamo facendo farisaiche distinzioni: credenti e non credenti, praticanti e lontani, matrimoni e coppie di fatto, regolari e irregolari. E così succede che mentre noi continuiamo a classificare i suoi figli e le sue figlie… Gesù per amore sulla croce dice l’abbraccio del Padre che ha un cuore talmente grande che abbraccia tutti perché lui non appartiene solo ai buoni o ai praticanti. Come dice tante volte nel Vangelo: non è venuto per i giusti, ma per gli ingiusti, non è venuto per i santi, ma per i peccatori.

A questo serve la Chiesa, serve sia nel senso di essere utile all’umanità, ma serve anche nel senso che è al servizio di questo Vangelo e le due cose coincidono.

Dio sa quanto c’è bisogno che questo annuncio raggiunga il cuore di tanti. Ma ci domandiamo allora se il messaggio è così bello e importante perché assistiamo invece a un inesorabile crescita dell’indifferenza e dell’insignificanza della fede? Non servono nemmeno più le indagini sociologiche perché è sotto gli occhi di tutti, assistiamo ormai a una emorragia impressionante soprattutto di giovani. E non c’è più nemmeno una sostanziale differenza di genere, anzi i mutamenti più evidenti sono esattamente sulla linea del femminile. Piccole atee crescono, potremmo dire.

Abbiamo dinnanzi una grande sfida per il nostro modo di essere cristiani, questi abbandoni, questa emorragia non sono solo un effetto del ciclo vitale dovuto alla crisi esistenziale, ma sono un segnale di cambiamento profondo nelle nuove generazioni.

Sono tanti i giovani che se ne vanno dalla pratica religiosa, dal rapporto col Padre, anzi ciò che colpisce in uno sguardo diacronico è proprio lo stacco che cresce in modo progressivo, quasi geometrico più che matematico, tra le generazioni dei Millenials e quelle precedenti.

Pur avendo frequentato per lunghi anni l’oratorio, le associazioni, i movimenti e l’insegnamento della religione, dopo 500 ore di religione a scuola, dopo 100 ore di catechismo in quattro anni, dopo aver accumulato 20 ore di prediche… nei nostri ragazzi e giovani la fede rimane quasi sempre e solo come una sorta di rumore di fondo. In molti c’è una sete di spiritualità, ma che fatica a trovare espressione e significati nel linguaggio e nei riti della chiesa e della comunità adulta.

Ma esiste una chiesa, una comunità adulta? Una comunità che annuncia il volto d’amore di Dio ed è capace di vivere relazioni fraterne?

Dobbiamo cercare qui le radici di questa disaffezione dei ragazzi e dei giovani. I loro genitori, i loro nonni hanno certamente chiesto per loro i sacramenti della fede, ma forse con poca fede nei sacramenti; li hanno portati in chiesa, ma come si va a una stazione di servizio; hanno insistito perché dicessero le preghiere e leggessero il Vangelo, ma non hanno mai pregato insieme e letto insieme il Vangelo; hanno favorito pure l’insegnamento della religione nelle scuole pubbliche e private, ma hanno delegato la fede come una materia i cui esperti erano altri.

Nel frattempo le nostre generazioni hanno coltivato per anni il mito della giovinezza, del rinnovamento continuo, della performance a tutti i costi, dell’efficienza, della grande salute, della prestanza sessuale ad ogni stadio della vita, della libertà a prescindere dalla responsabilità…

Non solo, ma grazie ad un’estensione senza pari nella storia dell’umanità della nostra speranza di vita, abbiamo censurato ogni riferimento alla durezza del vivere che è fatto anche di limiti, di fragilità, di malattia e di morte…

Abbiamo pensato di trasmettere dei valori, ma al contempo abbiamo coltivato un forte individualismo le cui conseguenze sono tutte da vedere.

Non è questione di dare la colpa a qualcuno, ma di comprendere come in questa storia in cui la vita è un costruire sulla duplice dimensione di essere figli e fratelli, come il Vangelo ci insegna, in realtà sono mancate le mediazioni, le testimonianze di vita evangelica, di cosa significhi essere adulti che credono con una qualità umanizzante della fede cristiana.

Dovremo interrogarci allora anche se le nostre liturgie, le nostre strutture, le nostre organizzazioni, l’impianto pastorale e gli organismi, dai consigli alle commissioni, sono davvero al servizio di questo vangelo.

C’è un particolare della parabola in cui il Padre di fronte al rifiuto del figlio maggiore di entrare in casa a fare festa, dice Gesù: Uscì allora a supplicarlo (v.28).

Dio esce a pregare il figlio, a supplicarlo affinché trovi la gioia di entrare in casa e poter guardare negli occhi il fratello.

È rivolta a me, a noi tutti questa preghiera: Dio ci chiama a fare della chiesa il luogo dei figli che vivono nella gioia del Vangelo dove costruiscono relazioni fraterne fondate sulla misericordia di Dio, di un Dio innamorato.

È questa l’urgenza necessaria, come dice il Padre al v. 32: bisognava fare festa e rallegrarsi. Bisognava, era necessario. Per dirla con Ricoeur vi è indubbiamente qualcosa di stravagante, qualcosa cioè che sfugge alla logica umana, perché non ci sarà bisogno di inventare chissà quali strategie pastorali: se la mèta è chiara, il cammino si aprirà da sé.

(Os 2,7-22; Lc 15, 11-32)