XI DOPO PENTECOSTE - Mt 21, 33-46


audio 8 agosto 2021

La pietra che i costruttori hanno scartato, è diventata pietra d’angolo. Con queste parole tratte dal salmo 118, Gesù parla di sé: la sua è una vita scartata, ne è ben consapevole. Ma sa anche che le cose bisogna imparare a guardarle da una prospettiva altra. Non è sufficiente per capire una vita il consenso che ottiene, il seguito che ha, il successo che raggiunge.

Noi oggi guardiamo a Gesù con la precomprensione di 2000 anni di storia e ne ammiriamo l’esempio, la parola, i gesti… ma se facessimo un salto indietro nel tempo, dovremmo riconoscere che la sua vita è stata un insuccesso, un disastro su tutti i fronti. Morire a poco più di trent’anni, senza aver commesso un reato, senza avere avuto una qualche colpa. Dopo aver percorso in lungo e in largo il suo paese per curare e guarire…e poi finire in croce, crocifisso tra due delinquenti. Non è un gran risultato. È proprio una pietra scartata, una vita di scarto.

Ma c’è un altro modo almeno di vedere le cose, racconta Gesù nella parabola, ed è la prospettiva di Dio. Detta così appare un po’ semplice, quasi fosse una consolazione compensatoria: pazienza se ti mettono in croce, tanto dopo risorgi.

Ma facciamo attenzione, nelle parole del salmo, Dio non è nemmeno nominato: è sottinteso perché chi è che fa diventare la pietra scartata la pietra angolare? Ovviamente è lui. Ma il non nominarlo è l’invito a non pensare a un intervento di Dio che risolve le cose e cambia i destini della vita quasi magicamente.

Il pensiero di Gesù mi pare ci costringa a riconoscere una cosa che tendiamo a rimuovere: Siamo tutti in affitto! Se la vigna è immagine del mondo e anche della storia in cui ciascuno di noi viene alla luce per portare il proprio contributo, la prima cosa da non dimenticare dice Gesù è che siamo in affitto. Nessuno è proprietario di niente.

L’impegno che mettiamo nel fare le cose, nel vivere più o meno intensamente è come il prezzo che paghiamo per abitare una casa. La casa non è nostra, non è di proprietà. E questo pare scontato, ma come ricorda Gesù non lo è affatto: d’altronde perché uno uccide, ruba, usa violenza e compie ingiustizie?

Perché crede di farla da padrone con l’ambiente, con il creato, con le cose e con gli altri. Da dove vengono d’altronde tante ingiustizie e iniquità? Se non dal fatto che nei pochi o tanti anni che stiamo al mondo pensiamo che la vigna sia del tutto nostra e dimentichiamo che è dono di Dio?

La dimenticanza, la rimozione dovremmo dire, riguarda il fatto che a un certo punto il titolare della vigna verrà e ci chiederà il conto. E noi non abbiamo nessuna voglia di fare i conti con questa prospettiva: in fondo viviamo, lavoriamo, amiamo, senza pensare di dover rendere conto a qualcuno.

Attenzione, Gesù non dice: Non vivete per il mondo: esso ha una fine, piuttosto ci dice: Non vivete per possedere il mondo e dilapidarlo, ma vivete intensamente per farne un regno di giustizia e d’amore, poiché lo ritroverete dopo la vostra morte così come avrete cercato di costruirlo per gli altri, non lasciatevi quindi assorbire dalle cose, dall’egoismo, dal denaro, cominciate da ora a vivere una vita di relazione, poiché tale sarà anche la vera vita che vi aspetta.

La vita non si mantiene se non condividendola. Nella misura in cui viviamo accartocciati sul nostro piccolo io, cercando di condurre tutto al “mio”, di possedere il mondo per noi soli, di dominare gli altri, in questo ambito noi viviamo nel peccato e nella morte.

Dobbiamo mano a mano liberare l’”io” dal “me”. Il “me” è la volontà di possesso; mentre l’io è fatto per stare in relazione.

Pensate quante vite di scarto produciamo se non cambiamo questa logica. Quante vite di scarto produce la nostra umanità, come ci ammonisce papa Francesco, e sono tantissime.

Le vittime delle guerre, i morti annegati nel cimitero del Mar Mediterraneo, le donne che subiscono violenza e discriminazione; i bambini, i carcerati, i giovani che non trovano lavoro e non lo cercano più. I malati, gli anziani, le comunità delle periferie del mondo, periferie geografiche ed esistenziali… e potremmo continuare.

Come mai aumentano ovunque nel mondo gli scartati? Che cosa non sta funzionando? Davvero siamo rassegnati a pensare che questo è il prezzo per l’avanzamento della società? Crediamo che sia immodificabile la più grande ingiustizia di tutte, vale a dire che i ricchi diventano sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri?

Non ci avevano promesso un mondo nel quale grazie alla tecnologia, alla globalizzazione, al progresso economico, alle nuove opportunità, sarebbero diminuiti?

Con la sua parabola Gesù denuncia la grande bugia. Sì, viviamo nella bolla della nostra indifferenza, gelosi custodi di un benessere drogato e squilibrato, zitti e a testa bassa, a fare i conti solo e sempre con un qualche pezzetto dei nostri privilegi pronti a difenderli non appena li sentiamo a rischio. Ammutoliti in un pianeta dove in una stanza si spreca e nell’altra si crepa, come ricordava madre Teresa di Calcutta con la sua dolce ma rigorosa indignazione.

Ricordiamo il famoso libro del sociologo Zygmunt Bauman, Vite di scarto, che ebbe la capacità di metterci davanti a quella che è una vera e propria cultura che ormai ha applicato il concetto di rifiuto e di scarto anche agli esseri umani, e considera proprio in questo modo le persone, uomini e donne, che non possono più essere impiegati in alcun modo nell’ambito produttivo.

Non solo ma anche in quello del consumo perché l’essere umano più pregiato è quello che può anche consumare e, quindi, far girare la ruota della produzione.

Succede ora che quelle stesse terre un tempo non ancora industrializzate che hanno intrapreso il percorso della modernizzazione, producono a loro volta i loro “scarti umani” i quali cercano una soluzione ai loro problemi, attraverso, per esempio, l’emigrazione verso il primo mondo, che è tutt’altro che lieto di accoglierli: sono le “vittime collaterali non intenzionali e non pianificate del progresso economico”, scrive Bauman.

Il rifugiato poi è il caso estremo di individuo che ha perso la propria identità e che è respinto ovunque: “I rifugiati sono rifiuti umani, senza nessuna funzione utile da svolgere nella terra del loro arrivo e soggiorno temporaneo e nessuna intenzione o prospettiva realistica di assimilazione e inserimento nel nuovo corpo sociale”.

Oltretutto, poiché non è fisicamente possibile rimuovere tutti i rifiuti – oppure non è possibile tenerli lontani in modo che noi non li vediamo -, ecco che si fa in modo che vengano sigillati in “contenitori a tenuta stagna”: campi profughi o ghetti che, da provvisori, diventano definitivi cosicché chi li popola non potrà mai più accedere al diritto di piena cittadinanza.

Siamo davvero costretti ad andare avanti così? Non so se riusciremo a cambiare il mondo, ma almeno noi possiamo smettere di produrre vite di scarto, seguendo l’esempio di Gesù che ci chiede di vivere consapevoli della vita eterna, della vita risorta.

Se questa è la sapienza di Dio, allora nel nostro lavoro e nel nostro impegno di ogni giorno impariamo anche noi a vivere con questo sguardo. Non so se la vita eterna viene espressa bene nell’immagine del salire in cielo a contemplare Dio, o nella preghiera che diciamo per i nostri defunti: “l’eterno riposo…”. Non è che questa idea del riposo sia una cosa particolarmente allettante o stimolante. Penso piuttosto che entreremo in un amore eterno, una gioia eterna, una vita appunto eterna: diventeremo co-creatori con Dio, co-animatori di questo universo.

È suggestiva l’immagine di Paolo, quando scrive che alla fine dei tempi “Dio diventerà tutto in tutti” (1Cor 15,28). Dio abiterà tutto intero in tutte le persone e nel tutto che è l’universo. Poiché risuscitare è pervenire alla perfetta rassomiglianza di Dio e ci saranno altre cose da fare, perché Dio stesso sarà occupato a percorrere l’universo per unificarlo, per abitarlo, per spiritualizzarlo, per amarlo.

E anche noi saremo occupati a fare come lui, a farlo con lui e in lui e lui con noi e in noi. L’universo ci ha formati attraverso la sua incessante evoluzione, come aveva ben visto Teilhard de Chardin, e noi lo trasformiamo e lo trasformeremo a nostra volta attraverso il nostro pensiero e la nostra resurrezione in Cristo.

(Mt, 21,33-46)