PASQUA - nel giorno - Gv 20, 11-18


(Mt 28,1-7)

Secondo la tradizione ebraica sono quattro le notti fondamentali del mondo:

La prima notte fu quella in cui il Signore si manifestò sul mondo per crearlo; il mondo era deserto e vuoto e le tenebre ricoprivano l’abisso. La parola del Signore fu la luce e questa cominciò a brillare.

La seconda fu quando il Signore si manifestò ad Abramo, che aveva cento anni, e a Sara che ne aveva ottanta perché si adempisse la scrittura: forse Abramo può generare e Sara partorire? Isacco aveva trentasette anni, quando fu offerto sull’altare. Seconda notte.

La terza notte fu quando il Signore apparve agli egiziani nel cuor della notte: la sua mano (sinistra) uccideva i primogeniti degli egiziani e la sua destra proteggeva i primogeniti d’Israele, perché si adempisse ciò che la scrittura dice: Israele è mio figlio, il mio primogenito.

Ma la quarta notte qual è? Dice la tradizione ebraica: La quarta notte (sarà) quando il mondo arriverà alla sua fine per essere dissolto; i gioghi di ferro saranno spezzati e le generazioni dell’empietà saranno distrutte. E Mosè uscirà dal deserto e il re messia dall’alto dei cieli… È la notte della pasqua per il nome del Signore.

Ecco noi viviamo ora la quarta notte, la notte nella quale però risulta che anche il Messia sia stato chiuso dentro un sepolcro. Sembra così che tutta la storia che abbiamo rivissuto con questa lunga serie di letture, non solo, ma anche tutti i secoli di umanità… vadano a schiantarsi e a imbattersi contro il masso posto sul sepolcro di Gesù, contro il quale sembra non si possa fare nulla. Tutte le promesse dei profeti, le illusioni e le speranze, i messianismi politici, culturali finiscono qui, si schiantano contro un masso. La pietra sembra la tomba dei secoli.

Non solo della storia in genere, ma anche della nostra storia personale. Perché ognuno di noi ha la sua storia, con il suo bene e il suo male, le sue benedizioni e le sue maledizioni. Chi di noi, del resto, non ha avvertito, almeno in un momento della propria vita, il peso di un macigno addosso? Quante volte ci siamo trovati a chiederci d’un tratto: Chi potrà rotolarmi via questo masso che non mi lascia vivere, non mi lascia volare, non mi lascia essere me stesso?

Nelle due donne, Maria di Magdala e l’altra Maria, c’è tutta la storia e ci siamo tutti. Cosa ci resta da fare dopo che abbiamo pianto, dopo che abbiamo patito, dopo che abbiamo lasciato andare una persona cara? Non ci resta che tornare sulla sua tomba. Siamo Maria di Magdala e l’altra Maria, perché come per loro, anche la nostra corsa si arresta davanti al masso che chiude il sepolcro.

Garcia Marquez, lo scrittore colombiano morto in questi giorni, scriveva: Non si è in nessun posto finché non si ha un morto sotterra (Cent’anni di solitudine). La nostra vita è così, dopo tutto il nostro girovagare, fare esperienze, avere legami e sentimenti, progetti e speranza… alla fine non ci rimane che guardare l’imboccatura di un sepolcro. Ma quando Maria di Magdala e l’altra Maria giungono al sepolcro, la risurrezione di Gesù è già avvenuta e loro non lo sanno. Ecco il forte contrasto tra la staticità irremovibile della pietra che è quella della nostra condizione e l’imprevedibile agire di Dio.

Il Signore agisce dentro ogni situazione esistenziale, il Signore passa, appunto fa pasqua, anche dentro le condizioni più desolate e chiuse alla speranza. L’Eterno agisce senza far rumore e senza che noi ce ne rendiamo conto. Superficialmente le nostre vite sembrano essere un coacervo di disastri e di successi, di lacrime e di gioia. A volte siamo vivi con un enorme appetito per la vita, altre volte la vita sembra vuota, senza alcun gusto. La verità gioiosa di pasqua è che Cristo ha abbracciato le tante contraddizioni che il peccato porta nella nostra vita. Sulla croce egli è morto per tutti noi e per tutto ciò che è morto dentro di noi.

Le donne si rendono conto che è successo qualcosa solo dopo, quando l’angelo del Signore rotola la pietra e si mette a sedere su di essa. Teniamo nel cuore questa immagine: se la pietra sembrava essere l’impatto ultimo, duro e triste quanto un masso, l’angelo del Signore ci si siede sopra, come a dire la signoria del Dio della vita su ogni durezza, su ogni tomba, su ogni male. Ecco, nella notte di Pasqua il Signore torna a dirci: Non abbiate paura! E lo dice nel silenzio del nostro sepolcro che magari è un cuore amareggiato, disorientato. Lo dice nel nostro rapporto di coppia faticoso e difficile; lo dice di fronte al futuro incerto di un figlio; lo dice anche nella nostra congiuntura storica segnata dalla mancanza di speranza, perché il potere del male, della negatività sembra prendere il sopravvento sui popoli e alimentare strutture di peccato. Lo dice in ogni ferita umana… Non abbiate paura!

E poi l’angelo rivolge alle donne un altro imperativo: «Andate a dire ai suoi discepoli…». Si tratta di tornare alla Galilea «del primo amore», perché le donne, e noi con loro, hanno paura e preferirebbero fare quello che hanno fatto per tutti gli altri cari defunti. Quasi quasi preferiremmo rintanarci nelle nostre tombe, con la nostalgia delle bende della morte che ci irretiscono e che sono i nostri idoli, le vanità che ci danno un senso di benessere. Perché questa è la nostra società, la cosiddetta «società del benessere», dello stare bene a tutti i costi e senza guardare in faccia a nessuno, salvo poi trovarci a fare i conti con l’impossibilità di sostenerlo. Ma da noi stessi non siamo capaci di futuro e di speranza. C’è un angelo di pasqua che il Signore ci manda perché non prevalgano la stupidità, la superficialità e la malvagità.

Il Risorto è un dono, la risurrezione è un dono, qui è il nostro benessere. Non abbiamo gioia se preferiamo vivere incapsulati nelle sicurezze, se viviamo con la paura per cui è meglio «andare sul sicuro». E questo anche all’interno della chiesa dove, come dice papa Francesco nella Evangelii gaudium: «Si sviluppa la psicologia della tomba, che poco a poco trasforma i cristiani in mummie da museo. Delusi dalla realtà, dalla Chiesa o da se stessi, vivono la costante tentazione di attaccarsi a una tristezza dolciastra, senza speranza, che si impadronisce del cuore» (n.83). Non vogliamo essere mummie da museo, cristiani tristi, collezionisti di reliquie e di antichità, ma testimoni della gioia del vangelo. E allora rimettiamoci in cammino, «torniamo in Galilea», là dove sono risuonate per la prima volte le Beatitudini e continuiamo ad annunciarle ai nostri figli e a tutte le generazioni future.

Mi sembra significativo anche il fatto che la Pasqua quest’anno vede cattolici, evangelici, anglicani e ortodossi uniti nel celebrarla nello stesso giorno. Questa coincidenza del calendario giuliano e gregoriano, come scrivono i Patriarchi e i capi delle Chiese cristiane di Terra Santa nel tradizionale messaggio pasquale «ci rassicura e conferma che una trasformazione attraverso la grazia di Dio è sempre possibile, persino nelle situazioni umane che sembrano meno gestibili. Qui siamo consci della violenza in corso in luoghi come la Siria e il Libano, così come del dramma delle innumerevoli migliaia di rifugiati che sono stati costretti ad abbandonare le proprie case. Ma la Pasqua porta speranza di pace!».

È questo è anche il mio augurio.