III DOPO IL MARTIRIO DI S. GIOVANNI IL PRECURSORE - Lc 9, 18-22


(Nm 21,4-9; Fil 2, 6-11; Gv 3, 13-17)

Il segno della croce ci accompagna dai primi giorni della nostra vita, da quando il papà e la mamma l’hanno tracciata sulla nostra fronte, fino a essere ripetuto innumerevoli volte, quando nei momenti di preghiera iniziamo e concludiamo la liturgia tracciando il segno della croce su di noi o tracciandolo sulle cose come forma di benedizione.

Può anche capitare che qualcuno di sia legato anche a una croce in particolare: sarà quella che abbiamo in casa, oppure quella che ci portiamo in tasca stampata o addirittura al collo… Così come quando entriamo in una chiesa: lo sguardo cerca quel segno che sta sopra tutti gli altri arredi e decorazioni. Osservo spesso chi entra per la prima volta nella nostra chiesa, dopo l’iniziale disorientamento dovuto alle due navate, l’occhio va a fissarsi su questa croce che si innalza e attira a sé lo sguardo. Per noi è normale che la nostra fede abbia nella croce il simbolo per eccellenza, eppure non è sempre stato così e non lo è stato da subito.

In realtà c’è voluto qualche secolo prima che la croce venisse assunta come simbolo dei simboli. Quando si comincia a rappresentare la croce nelle chiese primitive, sulle croci più antiche che conosciamo non vi si raffigura il Cristo, piuttosto le croci appaiono intrecciate di foglie verdi, ai piedi della croce scaturisce una sorgente d’acqua… per indicare che il Signore non è rimasto sulla croce, è risuscitato ed è vivo.

Quando verso la fine del primo millennio si diffuse la pratica di disegnare Cristo sulla croce, lo si rappresentò risorto, con gli occhi spalancati, le braccia aperte, con le ferite alle mani e ai piedi, ma senza i chiodi ad esempio, oppure più frequentemente, vestito con gli abiti del celebrante, come un prete per indicare che Gesù è vivo.

Nel Medioevo e nei periodi delle grandi pestilenze l’enorme sofferenza della gente indusse ad esprimere con vigore la solidarietà di Gesù con le sofferenze umane e pertanto l’immagine di Gesù sulla croce assunse i caratteri di un maggior realismo, mettendo in forte evidenza le piaghe di Gesù, sottolineando la sofferenza del figlio di Dio, nel quale ogni uomo poteva identificarsi.

Questo per dire come ogni epoca abbia saputo riproporre e rileggere il mistero della croce con la propria sensibilità, non senza qualche implicazione discutibile e qualche ambiguità. Basti pensare alla festa di oggi: anzitutto potrebbe risultare un doppione del venerdì santo, il giorno della passione e della morte di Gesù. Ma l’ambiguità più forte è data dall’origine stessa di questa festa (335) perché legata alla costruzione della Basilica della risurrezione in Gerusalemme per solennizzare il presunto ritrovamento delle tre croci del Calvario: un ritrovamento in realtà a dir poco leggendario, e forse strumentale a quel sogno nel quale Costantino avrebbe visto nel cielo la croce con la scritta: in hoc signo vinces. Confermato da questa visione l’imperatore ingaggerà la sua battaglia.

Nel giro di qualche centinaio d’anni si compie un ribaltamento di significati. Dalla croce come patibolo sul quale il Signore ha consegnato la propria vita, dalla croce segno di umiliazione e di amore… si passa alla croce disegnata sugli scudi, sugli elmi, e quindi alla croce come segno che autorizza da parte dei discepoli del Crocifisso il potere, la violenza, addirittura la licenza di uccidere.

Ma anche oggi la croce continua ad essere oggetto non privo di una qualche ambiguità: anzitutto perché qualcuno vorrebbe nostalgicamente brandirla contro qualcun altro; e poi c’è chi la considera alla stregua di una bandiera, quasi un’insegna per distinguere una cultura da un’altra, una civiltà da un’altra; altri ancora la ostentano volgarmente come un gingillo… questo per dire che anche noi dobbiamo vigilare sulla tentazione che sempre ci insidia ovvero di servirci della croce piuttosto che di vivere come il Crocifisso.

Il fatto che il Cristo che abbiamo sulla nostra croce non abbia le braccia, perché si sono perse nei secoli, lo leggo come uno richiamo per noi a liberarci da quelle ambiguità e a non ridurre la croce a un segno di potere, di identità, di fortezza, di potenza, ma a contemplarla per quella che è stata per Gesù: segno assoluto della sua debolezza, della sua fragilità, e contemplare in lui la debolezza di Dio, la fragilità di Dio.

Fin da bambini ci hanno insegnato che Dio è onnipotente, assoluto, eterno, e così anche la tradizione filosofica applica a Dio gli attributi dell’ onnipotenza, dell’assolutezza, dell’eternità… e non in maniera arbitraria, perché la stessa Scrittura parla di Dio come «Mia roccia, mia fortezza, mio liberatore» (2Sam 22,2), per citare uno dei testi che parlano così di Dio.

Ma qual è l’onnipotenza di Dio? Quando noi sentiamo parlare di onnipotenza, la associamo istintivamente al mondo militare e al potere micidiale delle armi. Oppure associamo l’onnipotenza al mondo politico, specie al potere assoluto dei tiranni e dei dittatori che dispongono a loro piacimento degli altri e delle leggi… ma è questa l’onnipotenza di Dio?

Già nella tradizione veterotestamentaria c’è un filone che interpreta ad esempio la creazione come l’inizio di un processo di arretramento e di nascondimento di Dio. Il Dio che fa esistere l’altro da sé, il mondo e l’uomo, è un Dio che si autolimita, che rinuncia al proprio potere, che si ritira per lasciare spazio all’uomo e alle sue capacità.

Gesù dice a Nicodemo: Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio. Quindi è soprattutto l’evento Gesù di Nazaret che manifesta la vera natura dell’onnipotenza di Dio, il quale, come dice il testo di Paolo svuotò se stesso, umiliò se stesso… facendosi obbediente fino alla morte di croce!

Sulla croce Cristo non fa miracoli, non dà prova di un potere, almeno come lo immaginiamo noi, appunto di forza, violenza e coercizione, ma appare in tutta la sua debolezza e fragilità, perché Gesù è del tutto impotente e inchiodato al legno eppure continua ad amare. La croce rivela la fragilità e la debolezza del potere dell’amore.

Non a caso nel dialogo con Nicodemo Gesù richiama l’immagine del serpente di bronzo che venne innalzato nel deserto ai tempi di Mosè. Cosa significa? Nel libro dei Numeri si dice che l’antidoto ai serpenti brucianti è un serpente innalzato, guardare il serpente di bronzo vince il bruciore mortale del veleno. Basta guardare il serpente e sarai salvo.

Guardiamo Gesù icona della debolezza e della fragilità dell’amore, perché proprio quella debolezza che vorremmo scacciare lontana da noi, solo se la guardiamo ci salva. Forse non siamo più capaci di guardare questa debolezza, perché non la vogliamo accettare. E quando non l’accettiamo cosa accade? Come nei rapporti di coppia, pensiamo che imporci con la prepotenza e la forza possa cambiare le cose… Ma l’amore per sua natura non è onnipotente, l’amore si offre, non si impone.

L’onnipotenza di Dio è il suo amore che vince, ma mai con la forza, mai con la violenza, piuttosto con la persuasione, perché l’amore non è una legge e non può essere imposto come legge, l’amore è completamente indifeso, disarmato, è come Gesù, inchiodato al legno.

Nella sua morte Gesù rivela il volto di Dio, il suo essere totalmente per gli altri, soprattutto per quelli che hanno bisogno di misericordia.

Infatti Dio non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato.  La croce è segno di condanna, ma non condanna nessuno: ogni volta che temiamo condanne per noi stessi, per le ombre e i peccati che ci portiamo dentro significa che non abbiamo compreso il mistero della croce. Ogni volta che lanciamo condanne contro altri ritorniamo pagani è perché ci serviamo della croce come ci serve di un idolo.

Se non vogliamo ridurre la croce al suo contrario, se vogliamo essere le braccia e le mani di questo amore, ogni volta che guardiamo il crocifisso chiediamo di saper accogliere e di saper vivere fino in fondo la debolezza dell’amore.