VIII DOPO PENTECOSTE - Mt 22, 15-22


La parola di Dio è parola di vita per noi, è un dono dell’Eterno per sostenerci nel nostro vivere quotidiano e per aiutarci a compiere quel discernimento necessario alle responsabilità della vita.

Così che quando sentiamo le parole di Gesù, ormai diventate proverbiali: Rendete a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio, per un verso pensiamo ai secoli trascorsi dove questa distinzione tra potere temporale e spirituale non era affatto così evidente come la viviamo noi oggi, anzi non c’era proprio separazione. Pensiamo che i primi Concili erano convocati dall’Imperatore, cosa adesso del tutto impensabile!

Anche se guardando appena più in là del nostro cortile, in Cina ad esempio, nonostante le fatiche di papa Francesco, ancora oggi la nomina dei vescovi della cosiddetta “chiesa patriottica” è fatta dallo Stato e non dal Papa, successore di Pietro.

Questo è un livello di lettura che ereditiamo dalla storia sia passata che recente come si evince anche dal contesto in cui la domanda viene posta a Gesù. I due partiti tra loro opposti e distanti, i farisei e gli erodiani, un giorno vanno insieme a interrogare il Signore. Sappiamo che i farisei non tolleravano l’occupazione romana, anche se non arrivavano ad azioni estremiste e violente come gli zeloti, mentre gli erodiani erano, come dice il nome stesso, dalla parte di Erode, un re fantoccio messo lì appunto dai romani e quindi erano sostenitori di Cesare.

Ecco la loro domanda: «È lecito pagare il tributo a Cesare?» che non è da intendersi: «Si devono pagare le tasse?», perché il tributo in questione non è quanto dovuto al fisco romano, ma era il census ovvero la moneta che ogni cittadino dai 12 ai 65 anni doveva versare a Cesare, quale atto di riconoscimento dell’imperatore come sovrano assoluto, padrone di vita e di morte, quasi come un dio! Infatti sulla moneta era coniata l’immagine di Tiberio con l’iscrizione latina “Tiberio Cesare figlio del divino Augusto”.

La domanda dunque è politica nel senso provocatorio perché ripropone un’antica questione del rapporto tra potere religioso e potere politico, questione tanto dibattuta dal popolo d’Israele fin dai tempi posteriori alle grandi guide come Abramo, Mosè, Giosuè.

La prima lettura ci offre uno spaccato di quel periodo di transizione che è stato il tempo dei Giudici che va appunto dai grandi Patriarchi alla monarchia iniziata da Saul e poi sviluppata con la dinastia davidica fino alla fine dell’esilio di Babilonia, nel V secolo.

È evidente che nel momento in cui il popolo diventa stanziale e si trova ad organizzare la convivenza civile di tribù fino ad allora governate ognuna dalle proprie tradizioni, per strutturare le istituzioni sociali, economiche, politiche, giuridiche, deve darsi una forma di governo mutuata dall’esempio dei popoli vicini.

Oggi a noi poco interessa di queste vicende, però la parola di Dio ha qualcosa da dirci, a partire da un dato elementare, ma mai scontato, che anche la Scrittura constata amaramente il grande pericolo che corre un popolo nell’assolutizzare la figura del potente di turno, sia esso un giudice o un re. Il profeta Samuele denuncia con un coraggio ormai introvabile il comportamento dei suoi figli che viene così stigmatizzato: non camminavano più sulle sue orme (di Samuele loro padre); deviavano dietro al guadagno; accettavano regali e stravolgevano il diritto.

È la descrizione di tanti potenti, siano essi monarchici o democratici o repubblicani! Non tutti per fortuna perché anche noi abbiamo avuto figure di grande spessore umano e intelligenza politica. Tuttavia si sa che per chi è al potere è più facile avere familiarità con la corruzione, la concussione e tutti quei reati di cui continuiamo a sentir parlare, fino all’illegalità.

Il profeta Samuele tenta di resistere al volere del popolo di darsi un re perché sa bene che anche l’uomo solo al comando non sarà esente da questi rischi. Notate come paventa il comportamento del futuro re: Prenderà i vostri figli, prenderà le vostre figlie, prenderà i vostri campi, prenderà i servi e le serve… e diventerete suoi servi!

Ecco il grande rischio di sempre del politico di turno: prendere, prendere, prendere! Approfittarsene, che è la perversione di una cosa invece nobile e buona come la cura della polis, qual è la presa in carico del bene comune.

D’altra parte il rischio di noi cittadini è quello di finire per fare i servi e affidare la nostra vita e il nostro futuro a chi si serve delle nostre fragilità e paure, a chi paventa pericoli imminenti, a chi strumentalizza i fatti di ogni giorno per alimentare presunti motivi di ansia… e presentarsi poi come l’unico capace di far fronte ai problemi, alle insicurezze, trasformando facilmente in consensi il corrispettivo grado di paura ottenuto.

C’è una profonda differenza tra chi si serve delle paure e delle insicurezze che la vita indubbiamente fa incontrare e chi invece si mette al servizio della comunità nel rispetto di tutti, dei diritti e dei doveri di ciascuno.

Solo Dio possiamo servire, dobbiamo ricordarlo a tutti coloro che osannano il Cesare di turno. E il Cesare di turno non è certo l’immagine di Dio! Se ieri correvamo il rischio di dare a Dio quello che invece sarebbe stato bene restasse nelle mani di Cesare, adesso è Cesare a impugnare e brandire quello che è di Dio, utilizzando il crocifisso, il Vangelo, i Santi come segni dal valore politico.

Non possiamo allora non raccogliere la sfida profetica di Samuele e di Gesù per restituire il giusto potere alle cose e per non fare la fine, come racconta il filosofo statunitense Noam Chomsky, della rana bollita.

Il principio della rana bollita è un principio metaforico per descrivere una pessima capacità dell’essere umano moderno, quella di adattarsi a situazioni spiacevoli e deleterie senza reagire, se non quando ormai è troppo tardi. Così dice il racconto della rana bollita.

Immaginate un pentolone pieno d’acqua fredda nel quale nuota tranquillamente una rana. Il fuoco è acceso sotto la pentola, l’acqua si riscalda pian piano. Presto diventa tiepida. La rana la trova piuttosto gradevole e continua a nuotare. La temperatura sale. Adesso l’acqua è calda. Un po’ più di quanto la rana non apprezzi. Si stanca un po’, tuttavia non si spaventa. L’acqua adesso è davvero troppo calda. La rana la trova molto sgradevole, ma si è indebolita, non ha la forza di reagire. Allora sopporta e non fa nulla. Intanto la temperatura sale ancora, fino al momento in cui la rana finisce – semplicemente – morta bollita. Se la stessa rana fosse stata immersa direttamente nell’acqua a 50° avrebbe dato un forte colpo di zampa, sarebbe balzata subito fuori dal pentolone.[1]

In verità il fenomeno della rana bollita risale a una ricerca condotta nel lontano 1882. Durante un esperimento, alcuni ricercatori americani notarono che lanciando una rana in una pentola di acqua bollente, questa inevitabilmente saltava fuori per trarsi in salvo. Al contrario, mettendo la rana in una pentola di acqua fredda e riscaldando la pentola lentamente ma in modo costante, la rana finiva inevitabilmente bollita.

Se Gesù ai due partiti che gli sottopongono la domanda, rimprovera di essere ipocriti, ovvero falsi e bugiardi, oggi il Vangelo risuona come un richiamo urgente e forte ad abbassare la temperatura di un potere che lentamente ci sta portando ad ebollizione.

Viviamo in una società che è come quella pentola che lentamente va alzando la temperatura dell’odio, dell’ingiustizia, della violenza… e così finiamo per accettare lentamente e passivamente il linguaggio degradato, le vessazioni contro i poveri, la scomparsa dei valori e dell’etica subendo in silenzio, senza mai reagire.

Reagiamo per restituire a Dio quello che è di Dio, non come un bilanciamento necessario del primato di Cesare, non come una specie di armonico contrappeso, ma perché amiamo, custodiamo e proteggiamo il volto di Dio riflesso nel volto di ogni uomo, donna, bambina e bambino del mondo.

(1Sam 8, 1-22; 1Tm 2, 1-8; Mt 22, 15-22)

[1] Noam Chomsky, Media e Potere.