II DOPO LA DEDICAZIONE - La partecipazione delle genti alla salvezza - Lc 14, 1a. 15-24
Il sottotitolo del foglietto della II domenica dopo la dedicazione nella liturgia ambrosiana sintetizza il messaggio di oggi con queste parole: «La partecipazione delle genti alla salvezza». Isaia lo esprime con termini meno astratti: «Così dice il Signore: la mia casa si chiamerà casa di preghiera per tutti i popoli». Paolo ricorre a una doppia serie di immagini la prima tratta dall’ambiente famigliare e la seconda dall’architettura: «voi non siete più stranieri né ospiti, ma concittadini dei santi e familiari di Dio».
Queste letture ci dicono che prima ancora del nostro impegno, prima ancora del nostro cercare, del nostro pregare… all’inizio c’è la caparbietà e l’ostinazione di un Dio che vuole raggiungere tutti gli uomini con il suo amore. Questo è il sogno di Dio: che nessuno dei suoi figli e delle sue figlie non si senta amato da lui.
Un sogno che Dio ha ripetutamente rinnovato nella storia come sembra affermare Gesù nel vangelo. Nella parabola gli inviti sono tre e noi potremmo rileggerli come i tre grandi tempi della storia: il primo tempo è l’invito della Legge, avvenuto con l’elezione di Israele; il secondo è l’invito di Gesù con il vangelo annunciato ai poveri, agli storpi, ai ciechi e agli zoppi; il terzo invito è quello degli apostoli, della Chiesa che è ancora sospinta dall’amore di Dio ad uscire per le strade e lungo le siepi perchè la casa di Dio si riempia, perchè Dio non ama cenare da solo.
Già Isaia, il terzo Isaia, il profeta del ritorno dall’esilio, avvertiva l’urgenza di spezzare il circolo chiuso dell’elezione di Israele che faceva della comunità di Dio una comunità dalla quale erano esclusi gli stranieri, gli eunuchi, i lebbrosi… perchè così dice il Deuteronomio: «Il bastardo non entrerà nella comunità del Signore, nessuno dei suoi, neppure alla decima generazione entrerà nella comunità del Signore» (23, 2-9). Isaia cominciava a comprendere che l’amore di Dio non poteva facilmente essere rinchiuso in queste categorie umane, e che la comunità del Signore non poteva che essere una comunità dove l’appartenenza non fosse data da altro se non dalla fedeltà al sabato e all’alleanza, dalla fedeltà del cuore.
Cosa che il Signore riprende nella parabola degli invitati alla grande cena. Che Gesù fosse un amante dei banchetti è notorio, al punto che veniva schernito come mangione e beone, al contrario del più ascetico Giovanni Battista. Tant’è che Luca racconta nel suo vangelo di ben dieci pasti di Gesù: sette pasti sono prima dell’ultima cena, di cui tre nel ministero in Galilea e quattro nel viaggio verso Gerusalemme ed è a questi ultimi che appartiene il racconto di oggi.
Non solo, ma in particolare Luca tiene a precisare che Gesù ha accettato l’invito a cena non solo dai suoi amici, ma anche da parte dei farisei, e che tali cene non erano mai prive di una certa tensione, come avvertiamo nella parabola di Gesù.
La questione è che gli invitati alla grande cena (i farisei) hanno un cuore ingolfato. Il primo dice: ho comprato un campo; il secondo: ho comprato dei buoi;e infine il terzo: ho preso moglie… La dominante delle scuse è il verbo avere: l’avere diventa l’ostacolo più grande per essere quello che dobbiamo essere, per realizzare la vocazione che il Signore ci ha posto nel cuore. L’avere toglie la libertà e fornisce le scuse per rifiutare l’invito alla grande cena.
Diciamo noi: «Ho anch’io i miei progetti, i miei obiettivi nella vita» e sono le scuse addotte e sono motivazioni nobili: si tratta pur sempre di lavoro e di famiglia! Non sono affatto cose turpi, non sono peccati, ma Gesù ci avverte che quando le necessità della vita non vengono vissute nella prospettiva del regno di Dio, quando le avvertiamo come cose che dipendono solo da noi, diventano esse stesse degli idoli, passano davanti a Dio.
Allora ci sarà sempre un lavoro da fare, ci sarà sempre un impegno da assolvere o un amore da coltivare… prima di vivere il Vangelo, che è una cosa bella e gioiosa, proprio come una cena tra amici.
La verità che Gesù ci aiuta a riconoscere è che quando ci nascondiamo dietro alle scuse, significa che non siamo liberi.
Se non viviamo il lavoro, la famiglia, le relazioni, tutto ciò insomma che costituisce la sostanza della nostra vita, come relativo a Dio, ne diventiamo schiavi, dipendenti. Da qui l’angoscia e l’ansia che tante energie sottraggono alla nostra vita.
Forse è per questo che è evidente come il nostro essere cristiani più che essere preoccupato di continuare ad estendere l’invito, si riduce ad un ripiegamento di truppe che si sentono assalite e che arretrano nella cittadella fortificata.
A noi è chiesto di uscire per le strade e lungo le siepi, proprio dove gli argini religiosi creano separatezza e divisione, per costringerli ad entrare!
Questo imperativo che troviamo all’inizio della penultima riga: «costringili ad entrare» (compelle intrare), è preoccupante!
Difatti molti episodi di intolleranza nella storia della chiesa si sono appoggiati a questo testo. Basti pensare ai battesimi forzati all’epoca della disputa di Agostino coi donatisti: se l’unico modo di salvare qualcuno dalla dannazione consisteva nel battezzarlo, era una cosa naturale, quasi un atto di carità, battezzarlo anche senza il suo assenso!
La Chiesa non approvò mai esplicitamente questa pratica, ma che essa venisse esplicitamente ed inequivocabilmente condannata era una fatto raro, e non si verificò che piuttosto tardivamente.
I battesimi forzati erano a volte aggravati dal sospetto che i convertiti continuassero ad aderire segretamente alla loro fede precedente, come nella questione dei marranos in Spagna o in Portogallo.
Pensiamo alle «prediche coatte» nei confronti degli Ebrei per indurli alla conversione. Gregorio XIII (nel 1584, con la bolla Sancta Mater Ecclesia) esigeva che laddove c’era una comunità ebraica strutturata ci fosse anche un teologo cattolico che di sabato commentasse i passi che venivano letti in sinagoga…
Non solo, ma per quanto spiacevole possa risultare a noi cristiani, un’onesta rivisitazione storica dovrà ammettere che, specialmente durante il Medio Evo, governanti musulmani e autorità religiose islamiche furono molto più illuminate e tolleranti in materia di quelle cristiane.
Dobbiamo ricordare anche esempi in controtendenza come quello di Francesco d’Assisi con il sultano, o del domenicano Bartolomeo de Las Casas che nella colonizzazione delle Americhe si oppose risolutamente alla conversione coatta.
Ma l’ imperativo rimane lì con tutta la sua imperiosità: «costringili ad entrare»! Cos’è questa costrizione di cui parla Gesù? Qual è la forza con cui si costringono le persone? C’è la forza della violenza, della prevaricazione, del ricatto… come c’è la forza della necessità (si deve fare così), dell’abitudine (si è sempre fatto così)…
Ma noi sappiamo con quale forza Gesù ci chiama: la forza della sua vita, del suo modo di amare, del suo modo di essere che è davvero irresistibile! La dolce costrizione del suo amore.
Così la nostra missione non sarà vincere, ma sempre convincere; mai imporre, ma sempre proporre; mai giudicare, ma sempre analizzare.
Portare il Vangelo nella nostra società non è più una eventualità, una possibilità, ma una necessità: dobbiamo gettare Cristo nelle vene del mondo. Dobbiamo, per la dolce costrizione del suo amore, iniettare il Vangelo nell’organismo malato del nostro tempo.
(Is 56, 3-7; Ef 2, 11-22; Lc 14, 1a. 15-24)