III DOPO PENTECOSTE - Mc 10, 1-12
Anche noi siamo qui come già i discepoli ad interrogare Gesù, a porgli delle domande sulle questioni che più ci riguardano, sui problemi della nostra vita, delle nostre relazioni: come quelle sul matrimonio, sul rapporto uomo e donna riportate nel Vangelo di oggi. C’è qualcosa di particolare che Gesù ha detto o insegna, soprattutto in un tempo come il nostro, nel quale si evidenzia la bellezza ma anche tutta la fragilità della relazione uomo e donna?
Non solo, il nostro è un tempo nel quale anche ciò che era dato per scontato come l’essere maschio e femmina viene profondamente messo in discussione. Oggi la questione del gender contesta radicalmente l’asserto tradizionale che noi siamo maschi o femmine per nascita, l’identità femminile e l’identità maschile non vengono rigidamente determinata dagli aspetti biologici, ma si esprimono e vengono comprese in ambito culturale, storico, sociale… e questo è vero, tuttavia alcune conseguenze dell’ideologia del gender, che vuole determinare scelte e norme, faranno discutere.
Per noi credenti è importante recepire queste sfide della contemporaneità e non ergerci subito a difensori del passato, ma lasciarci interrogare e cogliere queste come occasioni per ripensare a ciò che diamo per scontato per darci delle argomentazioni ragionevoli.
Quando nel vangelo di Marco, come anche negli altri vangeli, Gesù viene interrogato sul matrimonio, la sua è una risposta apparentemente semplice in quanto rimanda ai racconti della creazione: Dio li fece maschio e femmina, per questo l’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie e i due saranno una carne sola… l’uomo dunque non divida quello che Dio ha congiunto (10,1-12).
Sappiamo bene che il cap.2 non intende spiegare come sia avvenuta la creazione dell’uomo e della donna, così come he l’immagine della costola estratta dal fianco dell’uomo dalla quale viene fatta la donna è un linguaggio che non va preso nella sua crudezza espressiva, ma nel suo significato sapienziale: è un modo per esprimere la profonda vocazione dell’essere umano, di ogni maschio e di ogni femmina, alla comunione, di camminare uno a fianco all’altra fino a essere «una sola carne» (2,18-25).
Come tutti sappiamo, la differenza sessuale è presente in tante forme di vita, nella lunga scala dei viventi, ma solo nell’uomo e nella donna essa porta in sé l’immagine e la somiglianza di Dio (il testo biblico lo ripete per ben tre volte in due versetti 1, 26-27): uomo e donna sono immagine e somiglianza di Dio.
Certo noi veniamo da secoli in cui abbiamo parlato di Dio descrivendolo con tutte le perfezioni ontologiche celebrate dalla nostra intelligenza (onnipotente, onnisciente…), per la tradizione biblica Dio è essenzialmente santo e unico, in contrapposizione alle divinità molteplici e frammentate dei vari pantheon. Dio è unico come recita la bellissima preghiera d’Israele: «Shema’ Israel Adonai Elohenu, Adonai echad», Ascolta Israele, il Signore è nostro Dio, il Signore è unico!
Proprio perché l’Eterno è unico, non è né maschile né femminile, la vocazione dell’essere umano, dell’adam – che non è un nome proprio, ma provenendo dall’adamah (terra) è il terreno, l’umano – è una vocazione a diventare uno.
L’immagine di Dio non emerge nell’adam, nell’essere umano per nascita, in modo meccanicistico, come un fatto già compiuto, prima che entri in gioco la sua libertà – la genesi avrebbe descritto la creazione di un bambino e non di un uomo -, ma è la vocazione dell’essere umano, maschio e femmina, chiamati a una comunione profonda di amore da costruire e realizzare lungo la loro vita.
La comprensione dell’unità della coppia umana come un compito e una vocazione da realizzare ci viene dal senso di una creazione, come dicevamo domenica scorsa, che consiste in quel modo di fare di Dio che distingue, mette i confini, dà dei limiti alle cose… per cui distinguendo, ordinando e separando, Dio chiama gli esseri viventi a cooperare a loro modo all’unità, alla comunione. La separazione crea la relazione.
Infatti, l’adam, l’essere umano viene separato: ecco allora ʾiš e ʾiššâ. Che l’uomo e la donna siano immagine e somiglianza di Dio, significa che non solo l’uomo preso a sé è immagine di Dio, non solo la donna presa a sé è immagine di Dio, ma che l’uomo e la donna insieme sono immagine di Dio nella loro tensione alla comunione, all’unità.
L’unità tra l’uomo e la donna è un compito da realizzare, è un’alleanza da stipulare e a questa fedeltà che l’uomo e la donna sono chiamati. La finezza della descrizione in Genesi la possiamo cogliere nello stupore con cui uno accoglie l’altro, nella dignità con cui l’uno chiama l’altra con lo stesso suo nome (ʾiš e ʾiššâ), ma anche con il consapevolezza di abbandonare il padre e la madre per unirsi all’altro fino a diventare una sola persona. Dove la procreazione segue come una conseguenza dell’unione.
Platone nel Convivio (o Simposio, 428 – 328 a.C.) scrive che un giorno Zeus volendo castigare l’androgino che voleva scalare il cielo per imporsi agli dèi, lo tagliò in due[1]; da allora ciascuno di noi sarebbe il simbolo di una metà che cerca l’altra metà. Da questa prospettiva però l’essere maschio e femmina appare più un castigo, una dannazione, quando invece per la Scrittura è una vocazione!
Se pensiamo ai secoli in cui queste pagine della Genesi venivano composte (IX-VIII sec. a.C.) in un’area culturale come quella mediorientale, agli ideali patriarcali di tale società e alla subordinazione della donna che essa ancora mantiene, queste righe sono di una modernità sorprendente.
La donna, nel disegno della creazione, non è condotta e donata all’uomo come essere sui cui esercitare il dominio, di cui disporre a piacimento o a cui assegnare un destino. Non è un oggetto da manipolare o un bene da conquistare e da possedere, né tantomeno una divinità o un angelo da adorare…. Il racconto biblico parla di reciprocità perfetta tra i due. Né sottomissione schiavizzante, né superiorità autosufficiente, ma vocazione alla comunione.
L’esperienza ce lo insegna: per conoscersi bene e crescere armonicamente l’essere umano ha bisogno della reciprocità tra uomo e donna. Quando ciò non avviene, se ne vedono le conseguenze. Siamo fatti per ascoltarci e aiutarci a vicenda. Possiamo dire che senza l’arricchimento reciproco in questa relazione – nel pensiero e nell’azione, negli affetti e nel lavoro, anche nella fede – i due non possono nemmeno capire fino in fondo che cosa significa essere uomo e donna.
La cultura moderna e contemporanea ha aperto nuovi spazi, nuove libertà e nuove profondità per l’arricchimento della comprensione di questa differenza. Ma ha introdotto anche molti dubbi e molto scetticismo.
«Per esempio, si chiede papa Francesco, se la cosiddetta teoria del gender non sia anche espressione di una frustrazione e di una rassegnazione, che mira a cancellare la differenza sessuale perché non sa più confrontarsi con essa. Sì, rischiamo di fare un passo indietro.
La rimozione della differenza, infatti, è il problema, non la soluzione. Per risolvere i loro problemi di relazione, l’uomo e la donna devono invece parlarsi di più, ascoltarsi di più, conoscersi di più, volersi bene di più. Devono trattarsi con rispetto e cooperare con amicizia»[2].
Qui si mette in evidenza il paradosso: negare la differenza come segno di progresso o di avanzamento nella comprensione dell’umano, non conduce alla relazione, non favorisce l’incontro, ma conduce all’in-differenza.
Anziché essere uomini e donne a immagine di Dio, diventiamo invece capaci di prevaricazione, di violenza… oggi in particolare sono due le brutture di cui abbiamo evidenza: la corruzione e il rifiuto dell’altro, del povero. Per un verso coltiviamo un mondo che non è più un giardino di cui tutti possiamo gioire, ma nel quale alcuni coltivano sistemi di corruzione che riguardano ormai gran parte della nostra convivenza civile: dalla politica allo sport, dalla solidarietà all’emergenze… non c’è nulla che non sia corroso dalla corruzione. Un’avidità che diventa sconcertante di fronte alla povertà che irrompe nelle nostre città.
Diventiamo sempre più razzisti e egoisti, incapaci di una politica seria dell’accoglienza del profugo, del rifugiato, del povero perché c’è sempre chi alimenta la paura, chi invoca reazioni istintive e egoiste… E questa sarebbe l’immagine di Dio di cui siamo capaci?
La Genesi conclude con una costatazione apparentemente ingenua: Tutti e due erano nudi, l’uomo e sua moglie, e non provavano vergogna. Forse non c’è mai stata una stagione priva di vergogna, ma i motivi di cui dobbiamo vergognarci non mancano: quando diventiamo incapaci di riconoscere la dignità di ogni uomo e ogni donna, quando discriminiamo ed emarginiamo per il sesso, la cultura, la nazionalità, la religione.
C’è una nudità di cui vergognarci oggi, ed è la nudità del pensiero.
Dovremmo pregare e contemplare di più la sapienza del mistero dell’amore umano e della comunione cui è chiamato, un amore che è sempre natura e cultura insieme.
[1] Secondo un’etimologia la parola sesso viene al latino secare. Il sesso sarebbe il luogo del taglio, quindi di un’incompletezza, di una ferita.
[2] Udienza generale, 15 aprile 2015.