VENERDI’ SANTO - PASSIONE DEL SIGNORE - Mt 27, 1-56
(Mt 27, 1-56)
Donaci, Signore,
di accogliere l’abbraccio dal tuo amore crocifisso
con l’umiltà del cuore e dell’intelligenza
rifuggendo dalla retorica sentimentale
e dall’arroganza intellettuale,
perché possiamo stare dinanzi a te
in una fede umile e abbandonata.
Siamo nel cuore del mistero pasquale. Ciò che il Signore ieri sera ha anticipato nel segno del pane spezzato e del vino versato, oggi è realtà e la liturgia ambrosiana non ci fa celebrare l’eucaristia perché possiamo a stare dinanzi alla croce, anzi possiamo baciare il Corpo crocifisso del giovane profeta di Nazaret, così che compiamo un atto d’amore e riconosciamo nel Crocifisso un mistero d’amore. Ma come possono la sofferenza e la morte, di cui la croce è il simbolo per eccellenza, essere un mistero d’amore? Come può la morte di Gesù essere un abbraccio d’amore?
Il racconto di Matteo narra che la terra tremò, le rocce si spezzarono, i sepolcri si aprirono… come a dire: questa è la morte! È sempre uno sconvolgimento, un terremoto in rapporto alla vita: quando le certezze, la stabilità che ci andiamo costruendo per anni vengono brutalmente cancellate. Come il terremoto non si cura di ciò che c’è sopra, non si cura se ci sono deserti, campi, case o monumenti, così la morte non guarda se si tratta di una giovane vita, di una famiglia, di una persona per bene, di un giusto.
Nel grido di Gesù e nel silenzio che ne segue dopo il suo ultimo respiro, si esprime il grido di ciascuno di noi e di tutta quell’umanità che sta attraversando il dramma della sofferenza, della ingiustizia e si trova sull’abisso della morte. Ma questo rende ancora più acuta la domanda di come la croce possa essere un mistero d’amore, perché anche Gesù non ha definitivamente liberato la nostra condizione umana dal dolore e dalla morte.
E se la morte di Gesù non ha cancellato questo scandalo, a cosa è servita? Ci hanno insegnato che la sofferenza era il castigo di un Dio arrabbiato con noi perché continuiamo a peccare: ma è proprio vero? E allora Gesù che peccato aveva da espiare? Era necessario che tu morissi Gesù? Era necessario nel senso che l’Eterno aveva bisogno del sacrificio per soddisfare la sua sete di giustizia? C’è qui l’idea che il peccato si sconti solo con la pena, ma questo è in netta contraddizione con le Beatitudini e con tutto il Vangelo.
Perché Dio ha bisogno di colui che Isaia chiama «il Servo del Signore», al punto che scrive: «Ma al Signore è piaciuto prostrarlo con dolori. Quando offrirà se stesso in sacrificio di riparazione vedrà una discendenza… il giusto mio servo giustificherà molti, egli si addosserà le loro iniquità»?
Di fronte a questi interrogativi ritroviamo in noi le reazioni che abbiamo sentito raccontare da Matteo: di fronte alla sofferenza possiamo lavarci le mani col cinismo politico di Pilato perché il dolore dell’altro non ci riguarda.
Possiamo essere presi dalla morbosa curiosità dei passanti che scrutano un uomo privato anche dal pudore di poter morire con rispetto e lo sfidano: scendi dalla croce e allora sarai credibile!
Ma ancora possiamo trovarci dalla parte dei sacerdoti con una fede formale: di quale Dio è Figlio se lo lascia morire così?
Oppure, ed è l’atteggiamento più frequente, siamo come gli apostoli e ci lasciamo prendere dalla paura, incapaci perfino di sostenere il dolore di Maria sua madre, come fa invece Giovanni.
Davanti alla morte si scappa, si fugge… ma fino a quando? Fino a quando riusciremo a sottrarci?
Gesù non ci indica una scorciatoia perché nemmeno lui si sottrae alla morte, anzi l’aveva detto tante volte, «sapeva» di andare incontro alla morte come un agnello. Per questo entra letteralmente nelle viscere della terra, laddove deponiamo in genere i nostri defunti. E se nel Battesimo al Giordano si erano aperti i cieli per dire la volontà di Dio di riconciliarsi con l’uomo, ora, dice Matteo, si apre la terra per dire che Gesù non avrebbe cancellato la morte, ma che l’avrebbe vinta attraversando la morte stessa e scoperchiando i sepolcri! Perché lui ci salva non dalla morte, ma «nella» morte.
Così non siamo noi a dare un senso alla croce. Non siamo noi a dare un senso al dolore, alla sofferenza e alla morte. Questo sforzo produce dei risultati modesti e la storia e la filosofia ce lo stanno ad indicare: possiamo accettare la sofferenza come prova, come occasione che ci educa, come strumento di purificazione… che è già qualcosa, ma niente di più. Gesù dalla croce ci chiede un atteggiamento diverso: ti fidi di Dio? Ti fidi di Dio anche quando tutto sembra smentirlo? È il crocifisso che ci scuote e ci provoca. Vedete, quando noi soffriamo magari ci aggrappiamo a Dio, ma non ci abbandoniamo. Aggrapparci è una cosa, abbandonarsi è un’altra. Nel dolore ci aggrappiamo a Dio come uno che sta naufragando o che sta affogando e si aggrappa al suo soccorritore: gli si avvinghia fino quasi a tirarlo sott’acqua. Questo è solo un abbraccio di paura, non un abbraccio d’amore, di fiducia. Qualche volta facciamo così con Dio ci aggrappiamo a lui perché ci sentiamo mancare la terra sotto i piedi, ma non ci abbandoniamo.
Un venerdì santo di qualche anno fa, ricordo, una bambina di 2 anni e mezzo entrata in chiesa osservando per la prima volta il Crocifisso esposto per l’adorazione, chiese alla nonna: «Perché fa come si abbraccia?». Ecco, accogliendo l’abbraccio del Crocifisso per noi mentre ci avviciniamo a dargli il bacio del nostro affetto, chiediamo al Signore di poter allargare il nostro abbraccio a tutti coloro che incontreremo e che sono sulla croce del dolore, della malattia, della sofferenza, della mancanza di lavoro, dell’emarginazione, di chi è vittima della violenza.
Signore Gesù noi ora verremo a baciarti
mentre sei disteso sul legno della croce,
il nostro non vuole essere il bacio di Giuda,
anche se tante volte ti abbiamo tradito.
Né ti vogliamo guardare con lo sguardo di Pietro,
anche se ci siamo vergognati di te.
Se siamo qui è perché non siamo indifferenti al tuo dolore
e al dolore del mondo,
anche se siamo tentati dal cinismo di Pilato.
Davanti a te, al tuo corpo crocifisso pieghiamo le ginocchia,
anche se talvolta ci siamo irrigiditi come i sacerdoti.
Accoglici nel tuo abbraccio d’amore,
perché anche le nostre braccia siano capaci
di abbracciare con amore il dolore del mondo.
Amen.