GIOVEDI’ SANTO - ULTIMA CENA DEL SIGNORE - Mt 26, 17-75


Carissimi, dopo aver vissuto intensamente la quaresima che per tutta la comunità è stato un tempo forte di ascolto della Parola di Dio, un tempo ricco di occasioni di preghiera, un tempo che ha visto ciascuno di noi impegnato anche in qualche forma di rinuncia e di solidarietà… vorremmo avere un cuore e una mente pronti a rivivere con Gesù i giorni della sua passione.

E quando diciamo passione intendiamo dire certamente la sua sofferenza, il suo dolore, ma anche tutta la sua passione d’amore, il suo desiderio di rivelarci l’affetto che il Padre ha per ciascuno di noi.

Così doveva essere anche per i Dodici che avevano lasciato tutto e seguito Gesù, lo avevano sentito parlare di Beatitudini, del regno di Dio, avevano ascoltato le parabole e visto i segni con i quali aveva guarito molti uomini e donne che erano nella sofferenza… dovevano essere pronti ad accompagnarlo.

Ma quella sera intorno alla tavola dell’ultima cena, troppi pensieri si affollavano nella mente dei discepoli, troppi timori urgevano nei cuori, perché essi potessero comprendere anche solo le parole pronunciate da Gesù sul pane e sul vino.

Ma erano consapevoli i discepoli che quella era la loro ultima cena con Gesù?

Non ci è dato di saperlo, probabilmente avevano cacciato in fondo negli angoli remoti dei loro cuori questo pensiero, non volevano sapere; non capivano, e non avevano il coraggio di fare domande. Solo più tardi, dopo la risurrezione sarà loro dato di comprenderne il senso: Prendete, mangiate: questo è il mio corpo. Bevetene tutti, perché questo è il mio sangue dell’alleanza.

Per Gesù invece, nel momento in cui le cose precipitano, dire così è possibile alla condizione di dare della propria morte una lettura decisamente diversa da quella suggerita dalle circostanze esteriori a tutti accessibili.

Le parole e i gesti del Signore durante la Cena interpretano la sua morte imminente non come la fine, ma come l’inizio di una nuova alleanza, di una nuova comunione che avrà con i discepoli a procedere dalla sua risurrezione: Ecco – dirà infatti il Risorto ai discepoli – io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo.

Questo non era assolutamente evidente per i Dodici, perché in realtà, dopo che Gesù consegna la sua vita ai segni del pane e del vino, ciò che essi vedono sembra tutt’altro: il Maestro viene consegnato da Giuda per pochi soldi, e subito dopo viene consegnato alle spade e ai bastoni dei soldati; viene anche consegnato al Sinedrio e ai sacerdoti, agli schiaffi e agli sputi dei loro segugi.

Ciò che addolora ancora di più è che Gesù viene consegnato anzitutto dai discepoli, infatti è proprio uno di loro che consegna il Signore alle autorità ebraiche, e poi sono queste stesse autorità a consegnarlo a Pilato, come ascolteremo nel vangelo di domani, i quali, i pagani, a loro volta, lo consegneranno alla morte.

Osservando lo svolgersi dei fatti dunque ciò che colpisce di più è che Gesù viene consegnato ora nelle mani di uno ora dell’altro… non è così evidente che sia lui a consegnarsi.

In questo senso dobbiamo riconoscere che la prima Eucaristia segna il momento della crisi più grande che il cristianesimo abbia mai attraversato. La crisi più forte non è quella che noi crediamo il cristianesimo stia attraversando ora – per ogni generazione il proprio tempo è il più difficile -, ma il momento in cui tutto correva il rischio di finire in niente è stato nell’ultima cena. L’ultima cena è stata una crisi ben maggiore di qualsiasi altra, dove anche i discepoli vivono tutte le reazioni umane possibili.

Anzitutto la disillusione, infatti, come annota con realismo Matteo, allora tutti i discepoli lo abbandonarono e fuggirono. Sono anch’essi nelle condizioni di Giona: di fronte all’inedito di Dio, ingenuamente pensano di sottrarsi fuggendo. Era un gruppo allo sbando: il progetto inaugurato sul monte delle Beatitudini sembrava ormai destinato ad essere archiviato tra le mille utopie che hanno percorso la storia umana e che sono inesorabilmente finite in niente.

Qualcuno tenta anche di reagire con la violenza e la forza. Questo è il destino di ogni forma di cristianesimo che si riduce a progetto, a ideologia: è destinata a morire. Anche se si prova a difenderla a tutti i costi con piglio battagliero: Rimetti la spada al suo posto!

Ci vorrà che Gesù arrivi fino in fondo, che suggelli con la coerenza fino alla morte, l’annuncio fatto sul pane e sul vino, per dire che la realtà, la storia, la vita umana la puoi cambiare ma solo a partire da te. Cristo stesso non plasma la realtà modellandola secondo i suoi intenti, ma la feconda dal di dentro come il seme che muore nel terreno.

Per questo noi teniamo viva la memoria di Gesù, celebrando ogni volta l’eucaristia, come diceva Paolo, in memoria di lui, continuando il suo consegnarsi che è la grazia capace di scardinare il mondo e per la quale il Signore ci dice: «Vivete così tra di voi, mettetevi al servizio gli uni degli altri; lasciatevi spezzare come questo pane e lasciatevi consegnare perché la logica del potere e della violenza sono vinte solo dal di dentro, implodono su se stesse se il vostro amore si arrischia fino in fondo, fino al punto di lavarvi i piedi gli uni gli altri».

Noi abitiamo questo paradosso, dono straordinario della tenerezza di Dio: Gesù consegna l’eucaristia alle nostre mani, pur sapendo che possiamo tradirla, affinché anche noi impariamo a consegnarci, affinché anche le nostre mani che accolgono il suo corpo, possano essere mani che accolgono, che lavano i piedi, che si mettono a servizio, come ha fatto Gesù, mani che si mettono a servizio della vita.

Sappiamo bene quanto sia difficile vivere diversamente dalla logica dominante: ogni giorno, fino alla nausea, la cronaca ci parla di mani che rubano, che arraffano, che sottraggono, che stringono per sé. Ma alla fine la storia ti presenta il conto, ed è vero quello che racconta un antico adagio: «La relazione con gli altri è come la cucina; in ogni pietanza ognuno trova quello che ci mette».

Se nel piatto dell’ultima cena Giuda mette il suo interesse più o meno meschino, Gesù sul piatto dell’ultima cena ha messo più del pane, ha messo se stesso, ha fatto dono di sé. Questo sta a ricordarci che come discepoli del Signore siamo sempre nella condizione di tradire la consegna di Gesù: ogni volta che mangiamo del suo corpo e beviamo del suo sangue possiamo decidere se fare o meno della nostra vita un dono.

Non è un sacramento facile quello dell’Eucaristia, è semplice nella sua forma, nei segni del pane e del vino, ma i suoi frutti si misurano sul ritmo della condivisione verso i tabernacoli scomodi della miseria, della sofferenza, della solitudine (T.Bello), in definitiva si misura sull’amore.