VI DOPO L’EPIFANIA - Lc 17, 11-19


Era una piccola comunità itinerante quella composta dai dieci lebbrosi del vangelo, che viveva di carità, di elemosina, una di quelle nelle quali non c’erano tutte quelle distinzioni che si incontrano normalmente nella vita cittadina e nei villaggi. Infatti veniamo a sapere che tra quei lebbrosi c’è almeno un samaritano.

Perché così succede: più scendi giù nella scala sociale, più sprofondi nell’emarginazione e più vieni a far parte, oserei dire spontaneamente, di una sorta di “comunità degli abissi”, dove si vive un’istintiva solidarietà dei bisogni e una condivisione dei destini.

Nella lebbra si può benissimo stare insieme ebrei e samaritani, non c’è differenza tanto si è comunque tutti scartati, si è tutti in una comune marginalità. Ecco la “comunità degli abissi” che all’unisono grida: Gesù eleison emas, Gesù abbi pietà di noi! Che tra l’altro è il nostro grido all’inizio della liturgia: Kyrie eleison!

I lebbrosi gridano e così facendo definiscono il perimetro del loro gruppo che deve mantenere le distanze dagli altri, e giustamente, per evitare il contagio.

I lebbrosi gridano perché vogliono attirare l’attenzione di Gesù: non hanno più nemmeno un Dio da invocare, la lebbra era considerata un castigo, una punizione … o almeno così hanno imparato a credere.

E allora quel grido può dire tante cose: Gesù tu che hai guarito altri, guarisci anche noi! Almeno tu làsciati prendere da un poco di compassione, di tenerezza, prova a pensare quanto stiamo male!

Possiamo intenderlo anche come il grido che nasce dalla colpa: abbi pietà, perdonaci! Probabilmente quei poveretti non sapevano nemmeno di cosa chiedere perdono, comunque gridano a Gesù che intuiscono essere più vicino a Dio: sicuramente abbiamo sbagliato o fatto qualcosa di male per cui Dio ci castiga, ma almeno tu perdonaci!

Ricordo l’incontro con una giovane donna, mamma di una bimba bellissima alla quale fin dal parto aveva trasmesso l’HIV. I malati di Aids erano i lebbrosi degli anni ‘80-’90, come per molti forse lo sono ancora. Mamma e figlia erano tenute a distanza da tutti, dai compagni di scuola, dai vicini… emarginate e considerate appunto indegne, sbagliate.

Lei era stupita che un prete si potesse interessare della loro condizione. Mettendo al mondo una bambina sieropositiva, Dio l’aveva castigata per punirla di una vita “disordinata” che tra l’altro le aveva fatto bruciare la sua giovinezza. Il prete non poteva che essere visto come il mandatario del giudice a confermare la condanna, il giudizio, la punizione. Infatti l’avere dato la vita a una bimba alla quale aveva trasmesso anche la morte era il castigo peggiore che potesse ricevere da un Dio veramente adirato con lei. Scriveva nel suo diario: Stai ancora scrollandoti di dosso l’angoscia di aver sbagliato ed ecco che ti arriva la mazzata finale.

È stato uno di quegli incontri che mi hanno cambiato la vita: per qualche anno, prima che l’Aids se le portasse via entrambe, io per primo ho dovuto imparare a riconoscere che anche nella distanza abissale dalla pratica religiosa, mentre quella giovane donna gridava a un Dio che riteneva improbabile potesse ascoltarla perché nemmeno gli altri la ascoltavano, era possibile annunciare una buona notizia, il Vangelo della tenerezza e della liberazione.

Non potevamo in quegli anni parlare di cura e di guarigione dal virus, ma almeno le ferite intime e le lacerazioni interiori quelle sì che si potevano curare e credo che si sia salvata, per dirla con le parole di Gesù, quando giunse finalmente a riconciliarsi con Dio (o con l’idea di lui che si era fatta) e con se stessa anzitutto, così da voler ricevere l’eucaristia prima di morire. La piccola qualche tempo dopo, mi diede conferma di aver colto il cambiamento avvenuto nella mamma, quando ormai anch’essa vicina alla morte, con l’innocenza di una bambina di pochi anni mi disse: Mi dai una scala per andare in cielo dalla mia mamma?

Posso dirvi che in quegli anni ho fatto l’università di “teologia della strada” che mi ha fatto ribaltare gli schemi imparati sui manuali di teologia, che mi ha fatto dismettere, almeno lo spero, il linguaggio clericale e mi ha insegnato a scavalcare i perimetri moralistici della condanna e del giudizio… per rendermi conto che il Vangelo è possibile ieri, oggi, sempre e che a dirmelo è stata, per così dire, una “straniera”.

Non occorre essere eroi, basta essere umani e ascoltare il grido che arriva da fuori, basta non avere fretta e porre attenzione a quel grido esplicito e talvolta soffocato, inghiottito da un dolore troppo forte e opprimente, basta non rimanere sulla difensiva per ascoltare la sofferenza e ancora più la colpa, il giudizio, lo stigma.

I lebbrosi non hanno gridato il loro dolore ai sacerdoti del tempio, né agli scribi: questi non volevano sentirli e li tenevano ben a distanza così che non disturbassero le liturgie e le riunioni dei potenti.

C’è una domanda che però si affaccia dopo aver letto il racconto evangelico: perché tutti e dieci sono stati purificati/guariti, ma uno solo è dichiarato “salvato” da Gesù?

Sarebbe interessante cominciare a chiederci cosa intendiamo noi per “salvezza”, cos’è “salvezza” oggi e da che cosa possiamo essere salvati?

Siamo debitori di una predicazione di secoli che annunciava la salvezza come l’alternativa tra la gloria del cielo e le fiamme dell’inferno, una salvezza che lasciava intravedere tra le sofferenze di quaggiù, la felicità di lassù… sofferenze che si dovevano affrontare come prove da superare per guadagnare i meriti del paradiso. Ma questa lo sappiamo bene, non è salvezza, è semplicemente alienazione.

Tant’è che ormai quando parliamo di salvare lo riconduciamo alla funzione del programma di scrittura del PC quando si “salva” un documento!

Paolo nella lettera ai cristiani che vivono a Roma racconta con molta onestà la sua esperienza di apostolo: Faccio l’esperienza di essere schiavo di una condizione per cui non faccio il bene che voglio, ma faccio il male che non voglio. Non siamo di fronte a una condizione rara di pericolo da cui essere salvati, secondo il nostro modo di intendere oggi l’essere salvato da un pericolo istantaneo, ma a una condizione permanente, a una realtà che ci riguarda tutti sia che siamo laici, preti o cardinali… uomini o donne… si tratta piuttosto di una condizione da cui avvertiamo il bisogno di essere liberati. Ecco “liberazione” è la declinazione della salvezza che più di tutti ci aiuta a cogliere il messaggio del Vangelo di oggi.

Infatti la visione della salvezza che registriamo dal Vangelo di Gesù è quella di uno che abita la profonda contraddizione di essere mandato da Dio per amore e al tempo stesso di essere condannato a morte nel nome del Dio della Legge, ed è un Dio che non fa nulla per venire a soccorrerlo, per salvarlo!

Siamo di fronte al paradosso per cui Gesù non si salva, stando a quella salvezza che abbiamo in mente noi, e infatti a prima vista è a dir poco imbarazzante che nel vangelo la salvezza di Dio passi attraverso gli stranieri, ma questa è la strada. E allora noi per comprendere il senso della nostra liberazione dobbiamo ascoltare gli stranieri di oggi che sono gli stranieri in rapporto alla nostra cultura, in rapporto alla nostra religiosità, gli stranieri in rapporto alla lingua… Stranieri sono gli atei, stranieri sono coloro che appartengono ad altre confessioni religiose, sono coloro che si pongono in modo antagonistico alle nostre posizioni….

Non è facile accogliere con umiltà la lezione che ci viene dalla storia che stiamo vivendo: lo straniero guarito è anche salvato perché finalmente liberato da un’idea di Dio che gode nel condannare l’uomo e dall’idea di uomo che perpetua questo modo di agire con gli altri.

Il lebbroso samaritano è stato guarito, purificato per cui non fa più paura agli altri, ma nell’incontro con Gesù è stato anche liberato dalla paura di Dio e per questo torna da salvato a ringraziare, perché riconosce il dono di Dio.

Quando si tratta di dire che il samaritano guarito torna indietro a ringraziare, Luca ricorre al verbo dell’eucaristia: è uno straniero, un lebbroso guarito che fa eucaristia. Cosa ci fa pensare questa cosa? Che dobbiamo imparare a ringraziare, a saper dire “grazie”, e non è un caso che la nostra preghiera settimanale sia appunto l’eucaristia, la cena del Signore.

Siamo qui a ringraziare per essere stati liberati anzitutto dal pregiudizio, dalla paura degli altri, consapevoli di abitare tutti la “comunità degli abissi” ma siamo qui a ringraziare anche per essere stati liberati, come diceva Paolo, grazie a Dio per mezzo di Gesù Cristo, da un’idea sbagliata di Dio.

Mi auguro che ciascuno di noi possa fare un’esperienza analoga a quella che vi ho raccontato e che continuo a fare molto spesso: persone che non hanno frequentato il mondo che noi frequentiamo, che non hanno una professione di fede come la nostra, sanno dire però cose in cui ritroviamo una profonda eco del Vangelo. Ogni giorno possiamo ricevere queste lezioni da “stranieri” che ci liberano, ci salvano dalla presunzione e dall’arroganza.

Non è forse vero che se oggi si parla di lotta per la giustizia, di tutela dei diritti, di libertà d’espressione… in fondo, storicamente, queste cose ce le hanno dette “gli stranieri”? e allora perché dobbiamo vivere sempre di questa profezia in ritardo, abbiamo forse addomesticato il Vangelo?

Non è questione di denigrare la nostra casa per parlar bene degli stranieri, ma per imparare a ringraziare Dio che attraverso gli stranieri ci fa toccare con mano la sua liberazione e manifesta il senso del suo regno che non corrisponde alle nostre organizzazioni, non si rinchiude nei nostri catechismi, così che non ci importa più contare quanti sono i nostri e quanti sono gli altri, perché i nostri sono tutti gli uomini, tutta la nostra famiglia è l’umanità, tutti noi abitiamo la “comunità degli abissi”.

(Rm 7,14-25; Lc 17,11-19)