III DOPO L’EPIFANIA - Mt 15, 32-38


C’è un particolare che sta all’inizio del racconto evangelico e che dà principio al grande segno del pane e dei pesci per sfamare una folla di quattromila persone, anche se la nostra attenzione è più facilmente attratta da questa grandiosità che non da quel particolare da cui tutto comincia e che è il vero miracolo, se così si può dire, ed è quel movimento personale e intimo al quale Gesù dà un nome preciso: «Sento compassione».

E non è la prima volta che nel Vangelo incontriamo questo stato d’animo di Gesù: ora la sperimenta innanzi a un lebbroso (Mc 1, 41), ora davanti alla povera vedova di Nain che ha perso anche un figlio (Lc 7, 13), un’altra volta dinanzi ai due ciechi di Gerico che gli gridano: «Signore abbi pietà di noi» (“Kyrie eleison” Mt 20,34).
E ancora si dice di Gesù che «Vedendo le folle ne sentì compassione perché erano stanche e sfinite, come pecore senza pastore» (Mt 9,36).
È il sentimento del Samaritano che sulla via da Gerusalemme a Gerico incontra il malcapitato picchiato e derubato (Lc 10, 33) ed è anche il sentimento del padre che accoglie il figlio prodigo che ritorna a casa dopo che ha sperperato il patrimonio (Lc 15, 20).

Questa costante e ricorrente compassione di Cristo mi fa pensare che anche noi attiriamo la compassione di Gesù, la compassione di Dio. Il suo sguardo conosce la nostra fatica, la nostra fame e il rischio di perderci.
Non solo, ma ciascuno di noi che è qui porta con se il proprio dolore, le proprie sofferenze e anche quelle di altri, di persone che amiamo e che conosciamo, per le quali vorremmo una guarigione, un aiuto, un sostegno.
Gesù rivolge su di noi uno sguardo di compassione, sente compassione per noi e per tutto il dolore del mondo.

Ma forse è anche altrettanto vero che pensiamo come questo indugiare al sentimentalismo non serva, perché nulla cambia della nostra vita e della vita di tanta gente che sta peggio di noi.
La compassione sembra essere un sentimento irrazionale, incontrollabile e per questo non gode di buona reputazione nel modo di sentire comune.
Non è forse vero che per indicare qualcuno che non è all’altezza delle aspettative diciamo che è uno “da compatire”, e che quel fatto o quella situazione “facevano pietà”, che quella esperienza faceva compassione?!
Forse anche perché quotidianamente siamo sottoposti ad un eccessivo carico di stimolo delle emozioni più superficiali e in qualche modo ci difendiamo erigendo delle barriere come l’indifferenza.

La questione è seria perché anche le emozioni più profonde rischiano di essere così travolte dal cinismo e dalla fretta. Perché fanno “perdere tempo”, non sono produttive, interrompono quella macchina micidiale per cui bisogna “realizzare”, senza fermarsi a riflettere.
«Le emozioni, scrive lo psichiatra Eugenio Borgna, invece sono anche portatrici di conoscenza: di una conoscenza che ci trascina nel cuore di esperienze di vita irraggiungibili dalla conoscenza razionale».
Una conoscenza che oggi ci fa domandare: Perché non siamo tra quelli che ad Haiti hanno perduto tutto? Perché i nostri figli e nipoti non sono i bambini somali o afgani perennemente in guerra?
Noi siamo loro. Questa è la risposta, questa è la compassione.

Un racconto ebraico dice che un giorno chiesero al profeta Elia: «Come facciamo a sapere che il Messia è arrivato?» E il profeta Elia rispose: «Andate alle porte della città e li lo troverete». Infatti alle porte della città si ammassavano i poveri, i ciechi, gli zoppi, a chiedere l’elemosina.
«Ma come si potrà riconoscere il Messia in mezzo a tutti i poveri?», rispose sempre il profeta: «Mentre tutti quei disgraziati si tolgono tutte le loro bende per lavarle e poi rimettersele, il Messia è l’unico che non si toglie tutte le bende insieme, ma toglie una benda per volta». «Dove sta la differenza?». «La differenza è che il Messia facendo così è sempre pronto ad aiutare chiunque abbia bisogno».

Il racconto dice almeno due cose che ritroviamo nel Messia Gesù: anzitutto la compassione di Dio che egli ha incarnato condividendo le nostre fragilità e la nostra umanità, e poi che la sua condivisione non si è fermata al sentimento. La compassione di Cristo non muove soltanto il cuore, mette in movimento anche le mani, come dice il versetto del vangelo di oggi che descrive un gesto molto semplice che forse ci sarà capitato alcune volte nella vita non solo di veder fare dagli altri, ma anche di farlo noi stessi, ed è quel versetto di Matteo che dice come Gesù dopo aver preso i sette pani e i pesci, dopo aver reso grazie, li spezzò e li dava ai discepoli e i discepoli alla folla.

Ma Gesù poteva distribuire il pane e i pesci direttamente alla folla! Invece li consegna ai discepoli e i discepoli li distribuiscono alla gente.
Ecco il miracolo è in quel movimento delle mani dei discepoli che ricevono da Gesù e che poi passano agli altri un pezzo di pane e due pesciolini: la compassione diventa pane. La compassione del Signore non rimane un sentimento fine a se stesso, sterile … diventa pane.

Noi, come i discepoli, siamo esperti nell’obiettare: Come possiamo trovare in un deserto – ed è il deserto dei cuori – tanti pani da sfamare una folla così grande?
Come possiamo trovare una soluzione? Cosa possiamo fare noi di fronte a problemi tanto grandi?
Noi che passiamo gli anni ad ascoltare lezioni e a leggere libri per imparare ad amministrare, calcolare, misurare … a fare bilanci di famiglia, di azienda, di comunità, a concentrarci su insuccessi e riuscite, guadagni e perdite.
Eppure non riusciamo a risolvere i problemi del mondo, perché la risposta non sta nell’organizzazione o in un tecnica, la risposta è nel sintonizzarci sull’eccedenza di Dio, sulla compassione di Gesù e questo stravolge le nostre evidenze.

Domandiamoci: qual è il pane che sfama la nostra vita?
È quello che riceviamo soltanto o anche quello che doniamo?
Non è un caso che i verbi del racconto evangelico siano anche i verbi dell’ultima cena: Dio si dona a noi sbriciolando la sua vita. Le briciole le otteniamo soltanto se il pane si spezza, si dona, si offre.
Se preferiamo tenercelo lì, il pane s’indurisce, diventa duro come pietra, inutilizzabile. Non è forse esperienza quotidiana che se lo teniamo da parte il nostro pane diventa duro in poche ore? Il pane di adesso ormai non arriva nemmeno a sera.
L’indifferenza indurisce il pane e i cuori.

La compassione fa in modo che il pane torni a spezzarsi, che la nostra capacità di ascolto e di condivisione possa creare spazi nuovi e forme nuove di vicinanza e di fraternità.
E questa è un’esperienza magnifica che ci fa dire con Paolo: «Dio ama chi dona con gioia». E anche se non ci mette al riparo dalla critica e dalla derisione del modo di vedere comune, tuttavia sa portarci fuori dall’ossessione di noi stessi verso quella terra promessa dove scorrono latte e miele, che altro non è se non lo spazio della gratuità, del dono, della compassione che diventa pane.

(Nm 13,1-2.17-27; 2Cor 9, 7-14; Mt 15, 32-38)