V DI PASQUA - Gv 13, 31b-35


Come non avvertire lo stridore tra la parola di Dio che abbiamo ascoltato e che è tutta un inno all’amore e tra quanto ribolle nella nostra società, nelle piazze, per le strade, ma anche nel mondo dei social media, divenuti pozzi ormai avvelenati dall’odio?

Abitiamo questa contraddizione per cui vorremmo che l’amore fosse l’amore, ma al tempo stesso dobbiamo lottare contro l’odio.

Ed è una questione antica quanto è antica l’umanità. La mitologia rispondeva raccontando la condizione umana come il riflesso di una lotta epica tra eros e thanatos, tra amore e morte che gli dei dell’Olimpo, o di qualche altro cielo, combattevano quotidianamente tra loro… Anche se non si sapeva bene se erano più gli dei che assomigliavano agli uomini o se erano gli uomini la mera riproposizione delle paturnie degli dei. E comunque la risposta mitologica era una sorta di rassegnazione: siamo in balìa di queste contrapposizioni e non possiamo farci nulla.

Una rassegnazione cui risponde il Vangelo che è – non dimentichiamolo –  una buona notizia, nel senso che noi siamo eredi di Gesù e abbiamo da dire e da donare qualcosa a questo dramma umano che non è tanto una nostra parola, ma è appunto quanto Gesù ci ha affidato e che lui ha compiuto quella sera, l’ultima sera con i suoi, quando prima di essere consegnato, si è alzato da tavola e ha lavato i piedi dei discepoli. Tornato a tavola, dopo aver annunciato che sarebbe stato consegnato da uno di loro, diede un boccone a Giuda dicendogli: “Quello che devi fare, fallo presto” e questi uscì nella notte.

Solo a questo punto il Signore consegna il comandamento “nuovo”: Come io ho amato voi, così amatevi gli uni gli altri. Non c’era bisogno di dire altro, era chiaro di quale amore Gesù stesse parlando.

Ecco noi siamo eredi questa grande responsabilità, responsabilità propria dei discepoli di Cristo nei confronti della storia e dell’umanità, perché abbiamo relegato il comandamento di Gesù sull’amore all’interno dell’etica soggettiva e dei comportamenti privati e così facendo ne abbiamo ridotto la sua potenziale capacità e abbiamo acconsentito che il comandamento dell’amore sia ormai tranquillamente considerato da molti, se non da tutti, assolutamente sterile per la storia del mondo, al punto che ormai è sport diffuso fare i “leoni da tastiera”, mettersi davanti a uno schermo e vomitare tutta la frustrazione e l’angoscia di cui si è capaci facendo facilmente i cattivi con i più deboli, senza il volto dell’altro davanti agli occhi, ma solo uno schermo.

Guai a noi nel momento in cui dovessimo accontentarci di ritagliare un’oasi d’amore tra le mura di casa o nell’intimo della nostra relazione con Dio: sarebbe pura illusione. La valanga d’odio, se non torniamo a dare uno spessore storico all’amore, travolgerà le nostre case e le nostre chiese.

Non si tratta di fare dell’idealismo, sappiamo tutti quant’è difficile amare. Tanto è bello e dà soddisfazione quando facciamo qualcosa per qualcuno, così come è altrettanto faticoso e doloroso il sacrificio che dobbiamo mettere in campo anzitutto dentro di noi prima di donare qualcosa a qualcuno.

Non è un caso se le poche righe di oggi in cui il Signore consegna il comandamento dell’amore sono dette nella cornice della sua passione: Giuda è appena uscito e lo tradisce, a Pietro che ha voluto difenderlo con la spada Gesù chiede di rimetterla nel fodero, a Pilato il re si consegna disarmato quando poteva convocare le schiere celesti!

Allora se noi vogliamo parlare di amore lo possiamo fare tenendo fisso lo sguardo su Gesù, il quale pronuncia le parole che abbiamo ascoltato oggi, dentro la morsa della storia che lo sta sconfiggendo e schiacciando.

Ecco vivere l’amore dentro questa realtà è la nostra condizione: noi viviamo come cristiani una conflittualità drammatica tra la necessità di un amore che non smobilita mai e la necessità di lottare contro il male, contro l’odio.

Non è amore se dinnanzi a un’ingiustizia tacciamo e invitiamo alla sopportazione, se ci rassegniamo all’onda d’odio che avanza senza opporre resistenza… non siamo nella logica dell’amore di Cristo che sempre ha preso posizione di fronte alle forze del male, sempre ha chiamato le cose con il loro nome. Per questo è stato crocifisso e per questo dobbiamo amare e lottare insieme.

Abbiamo davanti agli occhi due immagini, due spaccati della realtà che sono anche due prospettive diverse di futuro: da una parte un demagogo che sale sul palco con il rosario in mano, che bestemmia mentre tira in ballo a sproposito i santi patroni d’Europa – che probabilmente non conosce nemmeno – e il Cuore immacolato di Maria, bestemmia perché lo fa contro i poveri, contro i migranti… alimentando odio, rancore, divisione, violenza ed è un’immagine dell’onda nera che incombe.

Dall’altra abbiamo negli occhi un’immagine che, paradossalmente, nessuno ha visto ed è quella dell’Elemosiniere del Papa nel momento in cui scende nel tombino di un palazzo occupato da 400 persone a Roma per ridare la corrente a uomini, donne e bambini che lì vivono da diverso tempo, eppure è un’immagine luminosa in tutti i sensi!

Questa è l’immagine della chiesa dell’amore, della chiesa del futuro. Il cardinale elemosiniere avrebbe potuto chiamare le telecamere e mostrare a tutti in mondo visione: ecco venite a vedere come siamo buoni! Addirittura accendiamo la luce anche se siete musulmani, buddisti, non credenti, atei, e non avreste neanche il diritto che la chiesa vi consideri perché non siete di questa diocesi… però ecco vi faccio la carità, non importa se siete cattolici o meno, vedete che bella Chiesa aperta, moderna, buona e brava!

E invece no, la Chiesa non ha fatto questo. È scesa nel tombino. Non ha fatto prediche, non ha fatto elemosine. Si è messa nei panni di quella povera gente in quanto persone, si è messa al loro posto e ha detto che se per difendere la loro vita, che è il bene più grande, era necessario scendere nel tombino, lei scende con loro. Ha detto: lottiamo insieme perché la luce non sia tolta.

E guardate che non si tratta nemmeno semplicemente di un gesto. Qui c’è una sana teologia: qui si parla di Dio, di un Dio che si identifica con l’uomo, che prende su di sé il dolore e il bisogno dell’uomo. Qui c’è la teologia di Giovanni, quella di Paolo che scrive ai cristiani di Corinto, di Luca che parla della prima comunità. Qui la Chiesa racconta il volto di Dio.

E poi, dopo aver fatto questo la chiesa di papa Francesco fa una cosa assolutamente straordinaria, non solo non trasforma l’occasione per fare proselitismo e non cerca di convertire nessuno, ma lascia il suo biglietto da visita, come per dire: io ci sono.

È di una potenza questo gesto che lo userei come titolo di un’enciclica: la Chiesa del biglietto da visita! Insieme alle numerose immagini evangeliche: la chiesa come vigna o come gregge del Signore, come casa di Dio, come Gerusalemme celeste… fino alla più recente coniata da papa Francesco di Chiesa come ospedale da campo, questa immagine della Chiesa che lascia il biglietto da visita è strepitosa, e non è solo un’immagine, qui c’è il Vangelo perché la visita è il modo in cui avviene la rivelazione e la presenza di Dio nella storia. Dio visita il suo popolo, Dio visita la storia degli uomini. Egli entra nella storia ma non si fa chiudere in essa, la visita è la teologia in quanto teologia della storia.

Gesù è la visita di Dio nel mondo: umanità e divinità non confuse, non divise, non separate. Chi vede me, vede il Padre. E la chiesa è sacramento di questa visita. È presenza discreta, concreta, non vuole dominare, occupare spazi, non vuole più escludere e abbandonare nessuno: non conquista, ma lascia il suo biglietto da visita (Raniero La Valle).

Vediamo come cambia l’idea di religione: Dio visita la sua unica famiglia umana, non in un solo modo, non in una sola cultura, non in una sola Chiesa. La visita in molteplici modi, perché come dice il documento congiunto tra Chiesa e Islam del 4 febbraio scorso di Abu Dhabi, il pluralismo e le diversità di religione sono una sapiente volontà divina.

Il Dio di Gesù non è il Dio dell’identità, è il Dio della fraternità umana e il nostro compito è tenere fermo e saldo il primato dell’amore, proprio come fa una manciata di lievito dentro la massa di farina, come una piccola fiammella nell’immensa stanza buia.

E all’odio rispondiamo come dice Franco Arminio, poeta contemporaneo che scrive:

Non bisogna odiare chi ci odia,
questo è chiaro,
bisogna continuare ad accarezzare
la loro testa quando non ci vedono,
salutarli anche quando girano lo sguardo.
Essere amati è bello,
ma provate a fare buon uso
anche di chi vi odia: in fondo
è una forma di attaccamento,
una malattia che richiede una trasfusione,
sangue amaro a cui offrire sangue dolce.

 

(At 4, 32-37; 1Cor 12,31-13,8; Gv 13, 31-35)