V DOPO L’EPIFANIA - Mt 15, 21-28


(Gal 2, 15-16.19-21; Mt 15, 21-28)

Sono diversi i motivi che fanno di questa domenica un giorno di festa: la comunità celebra oggi il san Pier Giuliano Eymard (nato il 4.2.1811 e battezzato il 5) cui è dedicata la chiesa, fondatore come sapete dei Sacramentini e patrono appunto della parrocchia, poi viviamo con la Chiesa italiana la giornata per la vita, senza dimenticare che è domenica, il giorno del Signore, il giorno della risurrezione, anzi direi che questo è il motivo principale per cui siamo qui, poi vengono tutte le altre cose, il ricordo dei santi e le altre occasioni e giornate.

Forse potrebbe essere superfluo ricordarlo, ma ci aiuta a tenere una certa verità delle cose, perché la domenica è per noi il giorno in cui celebriamo l’eucaristia, facciamo ciò che il Signore ci ha chiesto di continuare a fare, nella certezza di essere contemporanei del suo mistero pasquale. Come abbiamo cercato di vedere in questi giorni di preparazione, siamo contemporanei della comunione alla cena pasquale, del dramma del Golgota e della gioia del mattino di Pasqua.

Direi che proprio da questa prospettiva possiamo comprendere il fatto che una parrocchia sia dedicata a un santo, e quindi più precisamente che questa nostra comunità si costruisca intorno a un edificio che è dedicato a un santo come il p. Eymard, che ha fatto dell’eucaristia la passione di una vita.

Anzitutto, la consuetudine di dedicare una Chiesa a un santo ha origini lontane, e ricordarne il significato è utile per noi. Infatti la tradizione cristiana fin dall’inizio prese a costruire un altare o anche un piccolo edificio sul luogo dove erano stati martirizzati i cristiani e dove erano stati sepolti.

Evidentemente cessato il tempo del martirio, si prese l’abitudine di dedicare l’aula della comunità alla memoria di quei martiri e comunque di dedicare i nuovi edifici alle figure significative e testimoni della fede e di custodire le reliquie nell’altare.

La comunità che lì si ritrovava teneva viva la memoria della vita e della testimonianza di quell’apostolo, di quel martire …. Al tempo stesso la comunità teneva viva la sua missione, il suo essere segno e testimonianza del Vangelo in quel territorio e in quel tempo.

Dunque che questa chiesa sia dedicata al p. Eymard, che nasca come frutto del Congresso eucaristico del 1983, dice appunto la sua missione in questo territorio e in questo tempo, come sintetizzava il card. Martini nell’omelia della dedicazione (1.10. 1989): «La vostra comunità deve essere più che mai una comunità eucaristica».

Che cosa vuol dire? Cerchiamo di rispondere, a partire anzitutto dal Vangelo di oggi, nel quale incontriamo due figure principali: Gesù e una donna Cananea. La Cananea è una madre disperata, una “madre coraggio”, non è affatto rassegnata, non ha paura di gridare la sua preoccupazione e il suo dolore al Signore.

Per contro stupisce non poco l’atteggiamento inizialmente distaccato di Gesù di fronte alla sofferenza di questa madre: prima sembra indifferente e poi, innanzi alla sua insistenza, ribatte con delle motivazioni che sinceramente facciamo fatica a condividere. Come sarebbe a dire che «Non è bene prendere il pane dei figli per gettarlo ai cagnolini» ? Gesù, come era in uso presso gli ebrei, indica i pagani (tale è la Cananea) come dei “cani”. Ed è proprio questo che ci lascia perplessi: anche Dio fa differenza di persone? Non sono tutti figli suoi? Anche Dio classifica gli uomini?

In realtà il racconto è per così dire “maieutico”, perché come la vita ci insegna è proprio nella difficoltà che affiora cosa abita nel cuore delle persone. Nella sua paradossalità il racconto fa emergere la fede di una donna che pur non essendo ebrea, pur non essendo credente, pur non essendo praticante, tuttavia nel suo dolore, si affida a Gesù, crede che almeno lui possa concederle anche solo delle briciole della sua tenerezza, della sua misericordia.

Certo lei è consapevole di non essere degna, non è cresciuta in una sinagoga, non è andata al catechismo, non è all’altezza di stare a tavola con Dio, tuttavia è convinta che l’Eterno non possa essere indifferente alla sofferenza e al dolore di una madre.

Infatti Gesù riconosce in lei un atteggiamento straordinario: «Donna, grande è la tua fede!». Atteggiamento che il Signore non aveva riscontrato nemmeno in Pietro, al quale poche righe sopra il passo di oggi, di fronte alla sua paura di camminare sulle acque, disse: «Uomo di poca fede!».

Credo che questo passo ci possa aiutare a comprendere cosa significhi essere comunità eucaristica. Quando diciamo eucaristia immediatamente pensiamo al culto. E tutto sommato è abbastanza facile celebrare l’eucaristia, fare il rito: basta seguire le rubriche, è sufficiente lasciarsi guidare dal messale. Non ci sorprende se oggi assistiamo a un ritorno del ritualismo e del formalismo. È sempre presente nell’uomo religioso la tentazione di un rapporto con Dio che evade dalle responsabilità della storia e che nell’ingessatura dei riti sembra trovare sicurezza.

In questo il p. Eymard è stato un grande, è stato un santo.

E forse qui possiamo trovare un significato vero anche per noi che ricordiamo il 50° anniversario della sua canonizzazione avvenuta al termine della prima sessione del concilio Vaticano II da parte del papa Giovanni XXIII (9 dicembre 1962).

In fondo cosa significa essere santi? Nel senso autentico, e se volete anche etimologico, significa essere altro dalla logica del mondo, essere alternativi al modo di pensare comune. Noi l’abbiamo ridotto a un’esemplarità morale, ma è ben di più.

Il contesto sociale in cui è vissuto il p. Eymard, siamo nel cuore del XIX sec, era instabile politicamente e socialmente. Molte persone erano costrette a lasciare le campagne per andare in città a trovare lavoro; le tensioni sociali esplodevano frequentemente in manifestazioni violente e tragiche che culminarono in quella che è stata la grande sollevazione in tutte le capitali europee del 1848. Non possiamo parlare di lotte sociali come le intendiamo oggi, tuttavia la classe operaia, proletari in genere, era in una situazione veramente disperata, il lavoro minorile era una vera e propria piaga sociale.

Marx e Engels pubblicano a Londra il Manifesto del partito comunista (febbraio 1848). L’enciclica Rerum novarum di Leone XIII (15.5. 1891) fu un primo tentativo di risposta della Chiesa alle sfide storiche e sociali. È in questi anni che Darwin pubblica, dopo tre decenni di viaggi e osservazioni L’origine della specie (1859) e Dostoevskij scrive alcune sue opere (Il sosia, 1846; Le notti bianche, 1848).

In un contesto come questo, il santo non si è isolato nel suo mondo interiore o spirituale, ma è uno che è stato capace di ascoltare il grido di fede, spesso soffocato, a volte nascosto, eppure diffuso, soprattutto di coloro che facevano fatica e stavano ai margini della società. Ha saputo distribuire il pane dell’amore di Dio, ha condiviso le briciole della tenerezza e della misericordia del Padre.

Pensiamo ai giovani operai di Parigi che dopo aver lavorato 12-13 ore andavano dal p. Eymard alle sette di sera per prepararsi alla prima comunione e questo per tre volte alla settimana … E dopo i figli, anche i genitori…

Per non pensare ai detenuti che visitava e nei quali sapeva cogliere il desiderio di riscatto, diceva infatti: anche sotto le catene ci sono anime belle.

O anche ai preti che a Parigi erano lasciati un po’ a loro stessi, senza un adeguato accompagnamento spirituale, specie coloro che avevano abbandonato il ministero. Scriveva il 1° novembre 1866 al rev. Dhé sacerdote di Parigi: «Lei sa che, due o tre anni fa, se ne contavano 900 sul selciato di Parigi. Ne conosco di questi infelici, che non chiedono che un asilo di carità!».

Ora noi per essere comunità eucaristica, non siamo chiamati a fare le cose che faceva lui nella Francia del XIX secolo, in un contesto storico e sociale molto diverso dal nostro, non dobbiamo copiare un modello o delle attività tipiche di quel tempo, ma come lui è stato capace di lasciarsi formare dall’eucaristia, dal dono di Dio, nella preghiera e nell’ascolto della parola che lo hanno messo in grado di ascoltare i bisogni dell’uomo, così anche questa nostra comunità sarà eucaristica nella misura in cui celebra il mistero pasquale e prega, ma sarà capace di ascoltare il quartiere, i bisogni dell’uomo di oggi ed essere, come lo è stata in questi anni, una presenza solidale di amore, di misericordia e di tenerezza.

Perché l’eucaristia che celebriamo è il pane dell’amore di Dio per ogni uomo, è un pane che non ci appartiene, come diciamo tra poco, è «per voi e per tutti» per fare del mondo il Regno di Dio.

Il p. Eymard ci insegna che il legame tra la celebrazione e la vita lo troviamo nella categoria del dono. Gesù fa dono di sé nell’Eucaristia perché anche noi facciamo delle nostre vite un dono.

Nella seconda lettura abbiamo riportato un passo della lettera ai Galati dove si riporta un versetto il più citato dal p. Eymard di tutta la Scrittura, nei suoi scritti ritorna quasi 180 volte! Ci si poteva attendere un versetto del Vangelo di Giovanni che amava tanto o una citazione esplicitamente eucaristica, invece no: «Non vivo più io, ma Cristo vive in me». Dove il p. Eymard fa sua una frase di Paolo non perché sia presuntuoso, ma perché riconosce che il modo di vivere del discepolo è il modo di stare al mondo di Gesù: nel dono di noi stessi continuiamo nella storia la logica pasquale, la dinamica dell’eucaristia religiosi e laici insieme, perché questo è il futuro della Chiesa.

Ecco, magari anche noi ci sentiamo indegni come la Cananea di sederci a mensa col Signore, ma con fede chiediamo il dono di una briciola di quel pane che può guarire e curare la solitudine e la tristezza di tanti cuori.