VI DOPO IL MARTIRIO DI S. GIOVANNI IL PRECURSORE - Mt 20, 1-16

C’è una premessa importante, troppo importante per poter comprendere le parole di Gesù prima ancora di chiederci che cosa questa parabola può dire a noi, oggi.
E la premessa è data dalla domanda di Pietro che, nei versetti appena sopra, con una dose di sfacciataggine, rivolge a Gesù dicendogli una cosa che probabilmente tra i discepoli si chiedevano da un po’ di tempo e se la portavano in animo come aspettativa. E la domanda è questa: Signore, noi abbiamo lasciato tutto per seguirti, che cosa ne avremo?
Non giudichiamo subito male questa richiesta, perché è legittima, è umana. D’altronde i dodici hanno lasciato tutto, come sottolinea Pietro, non è che hanno fatto una novena, o un qualche sacrificio… no, hanno lasciato tutto: casa, lavoro, affetti, amicizie!
Gesù non rimprovera affatto Pietro, anzi prende sul serio la sua domanda, articolando una risposta in tre punti.
- La ricompensa ha un carattere escatologico, nel senso che siederanno anche loro sui dodici troni di Israele quando ci sarà la risurrezione del mondo.
- Ma fin da ora è dato loro il centuplo quaggiù, vale a dire che la risurrezione è già avviata perché se è vero che uno rinuncia al padre, alla madre, ai fratelli, alla casa… nel suo nome, però è anche vero che tutte queste relazioni si moltiplicano fin da ora: riceverete il centuplo quaggiù.
- Infine, terzo punto: state attenti perché se vi considerate i primi in quanto avete lasciato tutto, potreste anche finire ultimi. La cosa è immediatamente comprensibile se pensiamo a coloro che occupano i primi posti nella chiesa (vescovi, preti, consacrate…) che hanno lasciato tutto, ma devono sempre stare attenti a non assumere atteggiamenti da privilegiati, da club esclusivo e di considerare per ciò stesso di avere un posto garantito. Niente di tutto ciò. Anche nel regno di Dio c’è il precariato! Si è sempre precari perché non è uno stato di vita o un’appartenenza che garantisca il regno di Dio.
Non posso fare a meno a questo punto di fare alcune considerazioni personali, perché anch’io vengo da un’appartenenza che ha comportato l’abbandonare tutto, letteralmente: casa, padre, madre, fratelli e sorelle… in nome del Vangelo, perché affascinato dalla visione della vita che viene da Cristo, e così come me tantissimi e tantissimi altri.
Infatti negli anni mi sono ritrovato ad avere una marea di relazioni, di legami, di amicizie… non solo, ma anche i voti di castità, di povertà e di obbedienza erano e sono pieni di significato per quell’anticipo di risurrezione di cui parlava Gesù, e significano per me vivere nella gioia e nella libertà dei figli di Dio.
Per cui posso dire che le prime due sottolineature del Maestro le ho ritrovate appieno, le ho sperimentate e le vivo come tali, ovviamente con tutte le fatiche del caso. Ma sono pronto a ripetere e a rinnovare quella decisione di cui parla Pietro nella sua domanda: lasciare tutto.
Le cose si complicano di fronte al terzo aspetto che ha sottolineato Gesù: state attenti voi che siete i primi a non finire per ultimi! Appunto siete precari. È così importante questo aspetto che lo sviluppa con questa parabola dei lavoratori chiamati a lavorare nella vigna nelle diverse ore del giorno.
In che senso è il monito ancora oggi più esigente? Un consacrato, una consacrata oggi può a ragione essere considerato tra i primi nella chiesa, così come cardinali e vescovi… ma preferisco parlare di qualcosa che vivo e conosco e quindi mi riferisco alla vita consacrata che è fatta sì di persone che rinunciano a tutto, come dice Pietro, ma che poi finiscono per avere tutto come istituzione. Succede che quello cui rinunci a titolo personale, te lo riprendi come istituzione. Certo i consacrati personalmente non hanno case, ma le hanno gli Istituti e le proprietà adesso che c’è l’invecchiamento e non ci sono vocazioni, sono diventate un problema di non facile gestione….
La rinuncia a tutto era per essere liberi e sciolti nella sequela e nella missione, invece si ritrovano ad essere istituti mastodontici e appesantiti… tant’è che quello stile di vita appare ormai senza fascino, non attira più i giovani. Ma non perché sono cattivi o cattive, perché sono malvagi… ma perché non offrono più una vita alternativa, si sono mondanizzati, hanno introiettato la logica del mondo che a titolo personale invece avevano voluto abbandonare.
Non sorprende allora questi istituti che hanno una storia anche secolare, come gli operai della prima ora secondo la parabola, siano considerati alla stessa stregua di coloro che oggi lasciano tutto per davvero e si mettono a seguire il Signore e ricevano un riconoscimento importante da parte di Gesù.
Questo ci dà consolazione perché vuol dire che il Signore non si ferma davanti ai nostri fallimenti, alle nostre miserie, non si stanca mai di chiamare. Di fronte al venire meno delle vocazioni molti si domandano oggi: che ne sarà di noi? Del nostro carisma? Delle nostre tradizioni? A chi consegnare il nostro patrimonio?
Papa Francesco, lo ricordo bene, perché l’ho sentito con le mie orecchie nel Duomo di Milano, in occasione della sua visita disse ai consacrati: Incominciano a essere pesanti le strutture, vuote, non sappiamo come fare e pensiamo di vendere le strutture per avere i soldi, i soldi per la vecchiaia… Incominciano a essere pesanti i soldi che abbiamo in banca… E la povertà, dove va? Ma il Signore è buono, e quando una congregazione religiosa non va per la strada del voto di povertà, di solito le manda un economo o un’economa cattiva che fa crollare tutto! E questo è una grazia! Dicevo che tutto si fa più pesante e difficile da sollevare. E la tentazione sempre è cercare le sicurezze umane (25 marzo 2017).
A fronte del nostro precariato, Gesù è ostinato, determinato così che il proprietario della vigna scende in piazza all’alba, alle nove del mattino, poi ancora a mezzogiorno e addirittura anche alle tre… e poi scende a cercare operai anche alle cinque, vale a dire un’ora prima di chiudere la giornata, come a dire la sua ostinazione, ma anche la sua immensa fiducia nella capacità di ciascuno di noi.
Non è per così dire, una parabola “sindacale”, ma rivela da una parte la nostra condizione di precari spirituali e dall’altra il modo di fare di Dio che rompe la proporzionalità tra opera e ricompensa, non sostituisce la giustizia ma va al di là nel segno della gratuità e del dono.
E questo fa del proprietario della vigna un «signore».
È un «signore» perché se per un verso è determinato a far sì che nel suo vigneto ci sia una buona vendemmia, al tempo stesso è sua ferma volontà dare opportunità di lavoro a più gente possibile. Per questo mette in condizione alcuni disoccupati di lavorare anche solo per un’ora, ma intanto la loro dignità è rispettata e alle loro famiglie viene dato ciò di cui hanno bisogno per vivere.
Gesù ci parla così di Dio.
Questi è il Dio di Gesù già annunciato da Isaia nella prima lettura: Fuori di me non c’è altro Dio; un dio giusto e salvatore non c’è all’infuori di me. Un Dio giusto.
Gesù ci dice di quale giustizia stiamo parlando: la sua vigna ha bisogno del lavoro di tutti, sia di quelli della prima ora, che di coloro che arrivano all’ultimo.
A qualcuno può dare scandalo che il Signore agisca così e sia buono con tutti, lo meritino o meno, siano credenti o agnostici, invochino il suo nome o vivano ignorandolo.
Ma Dio è così. E quello che noi dobbiamo fare è lasciare che Dio sia Dio, senza sminuirlo con le nostre idee e rinchiuderlo nei nostri schemi.
Dobbiamo lasciare che la nostra idea di Dio venga evangelizzata, abbiamo bisogno che il nostro sguardo sia reso limpido, perché il rischio che corriamo è quello che viene ben espresso da coloro che arrivati la prima ora, mormorano contro il proprietario della vigna perché vorrebbero guadagnare di più e invece si sentono dire: Siete invidiosi perché io sono buono?
Invidia, la sua etimologia dice lo stretto legame con il vedere: «in-videre» significa avere un occhio cattivo fino a non vedere più l’altro. E non è un caso che sia considerato un vizio tipicamente “clericale”.
Invidia è lo sguardo torvo di chi si chiede: perché a lui sì e a me no? Perché a lui la stessa misura di soldi, di salute e di fortuna, quando io ne merito di più?
L’invidia è molto più devastante di quello che pensiamo: è il dolore per il bene degli altri. Con uno sguardo così accecato non solo non vedo più gli altri come fratelli, perché diventano i miei antagonisti, ma non vedo più nemmeno la giustizia di Dio la cui passione lo porta ad uscire ad ogni ora della storia a cercare gente da coinvolgere nella sua vigna.
Invidia e precarietà non riescono però a neutralizzare la misericordia e la tenacia del nostro Dio.
(Is 45, 20-24; Mt 20, 1-16)