IX DEL TEMPO ORDINARIO - Mt 7, 21-27
(Dt 11, 18.26-28.32; Mt 7, 21-27)
Quelle che abbiamo ascoltato sono le ultime battute del cosiddetto “Discorso della montagna” di cui abbiamo letto alcuni passaggi in queste domeniche e che si conclude appunto con l’immagine della casa, anzi delle due case: quella costruita sulla roccia e quella costruita sulla sabbia. Cosa fa la differenza tra una casa che resiste e una casa che crolla? È ovvio, le fondamenta.
Contro la pioggia, lo straripamento dei fiumi o la violenza dei venti possiamo fare ben poco, e per ben due volte Gesù ripete la descrizione di questi eventi atmosferici che prescindono da noi, infatti i due diversi costruttori incontrano le medesime difficoltà, non c’è n’è uno più fortunato di un altro. Prima o poi la vita ti mette di fronte a un qualche scossone, a qualche straripamento o tempesta, a maggior ragione si tratta di costruire su fondamenta rocciose.
Potremmo allora tradurre questa metafora meteorologica con dei nomi più precisi: a cosa pensiamo quando si parla di piogge, di venti e di fiumi nella nostra vita? Cosa sono per noi oggi? Quali sono le contrarietà che mi trovo ad affrontare e che prescindono dalla mia volontà, sono indipendenti da me e mi sovrastano? La pioggia che cade ininterrotta potrebbe farci pensare al continuo bombardamento mediatico che subdolamente ci inocula il veleno della superficialità e della vanità. I fiumi che straripano potrebbero essere le chiacchiere inutili e le sciocchezze che ci sommergono, i venti che si abbattono potremmo immaginare siano i pregiudizi e le mode che impazzano …
Ma la questione fondamentale, appunto, è: quale è la casa che non crolla, ma resiste? Quale è la persona che di fronte alle ostilità e alle difficoltà sa rimanere in piedi? Se ripenso alle tempeste che ho attraversato nella mia vita che cosa mi ha permesso di non soccombere? A cosa mi sono aggrappato per resistere?
Potremmo anche chiederci: qual è oggi la Chiesa più credibile e capace di superare le inevitabili contrarietà e gli scandali, quella che dice: Signore, Signore? Oppure quella di coloro che pagano a caro prezzo il servizio del Vangelo e della vita dei fratelli fino a condividerne la povertà, la sofferenza e la marginalità?
E ancora: qual è la società umana capace di non naufragare e di non affogare la dignità dei suoi cittadini? Quella che va per la maggiore sui nostri teleschermi o quella di chi si indigna, di chi vive fianco a fianco di chi fa più fatica, di chi vive il proprio lavoro con fedeltà? Di chi non può esibire né bellezza né denari, ma porta giorno dopo giorno il peso del dolore di un anziano, di un disabile, della fragilità?
Ecco comprendiamo bene che la conclusione cui ci rimanda Gesù è molto chiara e netta. Il Signore non ricorre all’inquietante binomio benedizione-maledizione che invece ci riporta il testo del Deuteronomio, ma polarizza la nostra attenzione su due alternative secche: c’è chi parla e c’è chi agisce; c’è chi chiacchiera e chi fa. Addirittura il Signore non esita a definire “inique” anche le azioni liturgiche più sante, le azioni carismatiche più innovative, perfino gli esorcismi … se a queste non corrisponde l’amore concreto, vero per il prossimo e per i piccoli, ovvero quella giustizia che caratterizza l’agire di Dio e che per ben tre capitoli (5-7) Gesù ci ha annunciato, il rischio terribile del discepolo è quello appunto di “insabbiare” la vita e la fede.
Ci sia di consolazione il fatto che Gesù comprende che questo è tutto un cammino, un percorso che dobbiamo fare, infatti ricorda: In quel giorno molti mi diranno … da oggi a quel giorno la vostra vita sia un crescendo per il quale la Parola che ascoltiamo, il Vangelo che riceviamo, la fede che ci è stata trasmessa, possano giungere a compimento nelle nostre azioni, nelle nostre scelte, nei nostri modi di pensare e di vivere.
Non è che l’appartenenza a un cosiddetto Paese cattolico e l’essere in un continente che vanta radici cristiane di per sé ci renda meritevoli più di altri davanti a Dio. Costruire un futuro su un passato di cui non ci riappropriamo, che non sentiamo nostro pagando anche noi il prezzo della nostra conversione, significa vivere da iniqui, non solo ma significa anche consegnare ai nostri figli una casa destinata inesorabilmente a crollare.
L’immagine della roccia vuole proprio esprimere la solidità di una vita che è giunta al suo compimento, di una chiesa che sa diventare casa solida e accogliente, di una società che sa tradurre l’eredità ricevuta in dono in scelte di solidarietà e di giustizia.
Proviamo in questi giorni immediatamente prima della Quaresima a riprendere tutto il Discorso della montagna – rileggerlo a voce alta non dura di più di un’omelia domenicale – e ripartiamo dalle Beatitudini per comprendere che la casa sulla roccia non è una casa blindata, non è una vita sicura e garantita, ma una casa in cui si vive l’esperienza della povertà, in cui si piange, si sperimentano il dolore, l’umiliazione … ovvero tutte le difficoltà della vita ma con fede e con amore.
La casa sulla roccia non è la casa in cui vige la legge del taglione, ma quella della riconciliazione e del perdono; la casa sulla roccia è quella in cui il rapporto uomo e donna sono vissuti nel rispetto e nella fedeltà; è la casa in cui non c’è bisogno di fare giuramenti perché si è veri nel parlare; è ancora una casa dove anche quando subisci un torto e crederai di avere dei nemici, saprai pregare per loro perché vivi di una giustizia diversa, che è quella dell’Eterno.
La casa sulla roccia non è quella sicura perché piena di denaro, ma è quella in cui la condivisione diventa fonte di libertà da ogni preoccupazione e affanno per il domani… ecco dice Gesù: ci sono due generi di discepoli, che sono come le due case, tocca a voi decidere quale volete essere.
Racconta un rabbino posteriore a Gesù di qualche anno: « Un uomo che agisce bene e si dedica alla Parola è come uno che costruisce prima con le pietre e poi con i mattoni: anche se venisse molta acqua e facesse pressione su di essi, non li smuoverebbe.
Ma un uomo che non agisce bene, benché si dedichi alla preghiera e allo studio della Parola, a che cosa è simile? A uno che costruisce prima con i mattoni e poi con le pietre: basta che venga un po’ di acqua che li fa subito crollare » (Elisha’ ben Avujà, in: Detti di Rabbini, p. 124).