IV DI PASQUA - Gv 10, 11-18


(At 6,1-7; Rm 10,1-5; Gv 10,11-18)

In questa quarta domenica di Pasqua, che è tradizionalmente la domenica per le vocazioni, anche le letture parrebbero a prima vista invitarci a guardare dentro la chiesa per far fronte a un problema come quello delle vocazioni. Così il libro degli Atti ci fa ascoltare l’elezione di sette apostoli che parlano greco per rispondere alle necessità di quella parte di comunità. Paolo nella lettera ai Romani dice che per ascoltare il vangelo ci vuole qualcuno che lo annunci, e se si vuole che qualcuno lo annunci occorre che sia inviato… Gesù presentandosi come il buon Pastore nel vangelo di Giovanni, sembra porsi appunto come il modello per i pastori, quindi per i preti e i vescovi. Questa è una lettura possibile, ma che non esaurisce la ricchezza della Parola di Dio.

Ancora oggi, in questo mondo di ladri, per usare le parole che Antonello Venditti cantava nel 1988, c’è bisogno di pastori, intesi in senso ampio, ovvero di persone che sappiano donarsi e donare, proprio mentre abitiamo una città infestata dai mercenari, come li chiama Gesù. Le inchieste giudiziarie ci sbattono in faccia questa dura realtà, ma non meravigliamoci, non atteggiamoci da ipocriti almeno noi, perché ogni giorno sappiamo bene di abitare un tempo segnato dall’idolatria del denaro.

Nello spettacolo di corruzione, di degrado e di malaffare che la nostra città sta offrendo al mondo, Gesù si staglia con tutto il contrasto di cui è capace questa immagine del vangelo di Giovanni, come il «Pastore bello» (così è nell’originale greco, anche se la traduzione normalmente preferita è quella di «buon Pastore»): «Io sono il pastore bello. Il bel pastore offre la vita per le pecore… Io sono il bel pastore, conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me, così come il Padre conosce me e io conosco il Padre, e do la vita per le pecore».

Gesù ci dice che il pastore, quello bello, è colui che dà (lett. depone) la vita per le sue pecore e ripete questo verbo per ben cinque volte nelle poche righe di oggi, perché questa è la cosa decisiva.

In un’altra occasione nell’ultima cena quando si mise a lavare i piedi ai suoi discepoli, come prima cosa, scrive Giovanni, Gesù depose le vesti. Ritorna lo stesso verbo, per dire che così facendo Gesù depone il suo interesse, il suo «io», diremmo noi il suo orgoglio e si mette a servizio per amore perché questa è la vocazione dell’uomo e della donna.

Gesù non dice: dono la mia vita perché…. Se ci fosse un «perché» vorrebbe dire che Gesù dà la sua vita per un’idea, per un principio e quindi avrebbe comunque un suo interesse, un suo tornaconto.

Gesù non dice nemmeno che dà la sua vita per difendere la fede o per i valori non negoziabili… perché allora avrebbe un interesse di parte, preferirebbe un gruppo a un altro. Il fatto che il Signore deponga la sua vita, la consegni, la doni significa che si prende cura di ciascuno di noi, di ogni uomo e di ogni donna, perché in lui, come dice Paolo, non c’è Giudeo né Greco, Cristo non può essere chiuso in un recinto, non è di proprietà di nessuno, ma a lui tutti apparteniamo.

Infatti la bellezza del Pastore sta nell’amore con cui si prende cura di ciascuna delle sue pecore quelle che ha lì davanti a sé, quelle con le quali ha una relazione diretta e personale di intensissimo amore, ma notate al v. 16, il bel pastore allarga il suo orizzonte e alza lo sguardo dicendo: e ho altre pecore che non provengono da questo recinto, anche quelle io devo guidare.

Quando viene meno questa consapevolezza e nella storia è successo, ma ancora oggi c’è chi vorrebbe recintare Cristo nel proprio gruppo o nelle proprie appartenenze, tradiamo il vangelo, offuschiamo la bellezza dell’amore di Dio. Siamo noi che costruiamo steccati e identità, appartenenze e recinti così che c’è sempre qualcuno che è dentro – e in genere sono quelli che la pensano come noi – e altri che sono fuori e che sono i nostri nemici. Ma non è questo l’atteggiamento dei mercenari?

Il pastore Gesù insegna a tutti, preti e laici, vescovi e fedeli a smettere i nostri interessi, a donarci nella quotidiana ferialità della vita, nella sobrietà, e nel ritrovare la bellezza dell’essere discepoli, nella gratuità della fede.

Questo messaggio evangelico ha una sua forza per noi che abitiamo una profonda contraddizione. Lo vediamo proprio in questi giorni da una parte ci viene buttata in faccia la pervasività della corruzione, il potere dell’idolatria del denaro che abbruttisce le persone, rende insicura la società, insidia l’affidabilità dei rapporti umani e dall’altra parte assistiamo a un estetismo diffuso, a una ricerca ossessiva della bellezza formale e esteriore che sembra voler quasi truccare la realtà. Ma prima o poi quando siamo con noi stessi davanti allo specchio la realtà è lì davanti a noi con tutta la sua durezza.

E si scopre che c’è una bellezza altra, direi paradossale perché come diceva Isaia – l’abbiamo ascoltato nei giorni del triduo pasquale – il Servo inviato da Dio non ha apparenza, né bellezza, uomo dei dolori, maltrattato si lasciò umiliare…

Cosa c’è di bello qui? Il bello di Gesù è il contrarsi dell’Onnipotente nella debolezza, è il ridursi dell’Infinito nel particolare, il manifestarsi della gloria di Dio nell’umiltà dell’amore che lava i piedi ai suoi. L’aggettivo Bello deriva dal latino medievale «bonicellum»: «piccolo bene», per cui – per dirla con s. Agostino – bello non è semplicemente ciò che piace, come se la ragione della bellezza possa stare nel soggetto che prova piacere… Il bello è il bene, il bello è l’amore che induce l’infinito Bene a consegnarsi per il bene dell’amato.

Quando la città è infestata dai mercenari la reazione più diffusa è quella che fa dire: ognuno si arrangi, ognuno pensi a se stesso e ai propri interessi… in termini biblici parleremmo di «dispersione» che è il termine classico per evocare il passato doloroso di Israele, ma che è un passato sempre vero perché abitiamo una società divisa in steccati e recinti, in caste e particolarismi miopi e incapaci di futuro.

È invece nella capacità di continuare l’amore del bel pastore che si può sognare un futuro diverso per la nostra umanità e se siamo qui a spezzare il pane della Parola e dell’Eucaristia è perché in questo mondo di ladri come cantava appunto Venditti, c’è ancora un gruppo di amici che non si arrendono mai. Non ci arrendiamo, non vogliamo rassegnarci alla corruzione, all’idolatria del denaro, alla dispersione: vogliamo dire ai nostri giovani che non tutti sono così, che è possibile una convivenza civile diversa, che la società è anche abitata da persone oneste, corrette, rispettose, che si accontentano di quello che hanno, c’è qualcuno che non si arrende al «fan tutti così».

Vorremmo gridare ai nostri giovani di non cedere ai mercenari che vogliono comprare il loro cuore, li stordiscono di cose, di droghe, di consumi vacui, di mode effimere e di false religiosità.

Vorremmo gridare con la nostra vita che c’è una bellezza dell’essere e del vivere nel donarsi, della gratuità, della cura e dell’attenzione per l’altro che è impagabile.

Paolo al termine della seconda lettura al v.15 riporta una citazione di Isaia che dice: Quanto sono belli piedi di coloro che recano un lieto annuncio di bene (52,7). Perché i piedi sono belli? Noi avremmo detto che è bello lo sguardo, è bello il volto… il profeta dice che sono belli i piedi che camminano nella storia di tutti i giorni, perché sono inzaccherati dal fango e hanno percorso strade polverose e sentieri incidentati, perché hanno attraversato la valle della tentazione e l’abisso del peccato, ma sono belli perché sono rimasti fedeli all’amore e per questo sono un lieto annuncio di bene.