III DOPO PENTECOSTE - Mc 10, 1-12
(Gn 2, 28-25; Ef 5, 21-33; Mc 10, 1-12)
Dopo il grande dono del creato (domenica scorsa) e prima di cominciare la narrazione delle grandi figure bibliche, la parola di Dio ci dice dell’altro dono del Creatore, il dono dell’uomo e della donna, il dono del maschile e del femminile.
Una premessa si rende necessaria perché il linguaggio della Genesi appartiene a un contesto storico e culturale molto diverso dal nostro: questi capitoli vengono composti nella società medio-orientale dei secoli IX e VIII a. C., società segnata da una cultura dagli ideali patriarcali e caratterizzata dalla subordinazione della donna, che allora e forse ancora oggi in alcune culture è una vera e propria sottomissione.
Se non teniamo presente il contesto, andremmo incontro a una lettura fondamentalista della Bibbia, lettura che per un verso fa sorridere lo scienziato rigoroso e per un altro identifica il dato culturale come parola di Dio, così da far dire ad esempio che se il maschio è creato prima della donna allora è superiore a lei e che lei proprio perché creata dall’uomo sarebbe inferiore a lui. Si tratta di una lettura maschilista deviata come ne incontriamo nella Scrittura e dalla quale nemmeno Paolo riuscirà a liberarsi del tutto e che ha condizionato assai la storia del mondo.
L’intenzione della Genesi non è appunto quella di indicarci il come sia avvenuta la creazione dell’uomo e della donna. Su questo la tradizione biblica offre una risposta, dicendo che non c’è risposta, per questo ricorre ad immagini che ad una prima lettura ci appaiono puerili, ma che se le collochiamo nel loro contesto ci offrono prospettive suggestive di riflessione e di comprensione.
Prendiamo ad esempio il sonno, il torpore in cui Adamo è immerso, è un’immagine che vuole rendere ragione di un fatto innegabile. Maschio o femmina, io scopro e sento in me un dinamismo di attrazione, quella che noi chiamiamo sessualità, che mi orienta verso l’altro da me, verso un essere umano di sesso diverso. Questo è un dinamismo che mi trascende, è un mistero di attrazione e di slancio, di curiosità e di interesse, di incanto e di paura, di desiderio e di speranza che viene prima della mia volontà e della mia razionalità.
Così pure il gesto curioso da parte dell’Eterno di formare la donna dalla costola dell’uomo. È un gesto bizzarro perché verrebbe da domandarci se Dio così come aveva plasmato Adamo dalla polvere del suolo, non avrebbe potuto creare anche Eva. Se questo non accade, vuol dire che il significato non è così evidente e va cercato e studiato, a partire dall’esperienza della vita.
La letteratura ebraica si è sbizzarrita nell’indagare questo gesto dell’Eterno. Secondo il Midrash (Rabbah Bereshit 18,2) Dio si domandò da dove potesse trarre la donna: non dalla testa, si rispose, perché non abbia ad essere arrogante e superba; non dall’occhio così che non faccia la civetta; non dall’orecchio affinché non sia indiscreta; non dalla bocca perché non sia pettegola; non dal cuore perché non sia troppo gelosa; non dalla mano perché non sia troppo avida; non dal piede perché non sia vagabonda… Insomma secondo il Midrash Dio ha voluto creare la donna da una parte nascosta del corpo perché abbia ad essere modesta. Ed è una cosa buona, ma mi sembra insufficiente e anche un po’ strumentale e ideologica.
Il linguaggio sapienziale della Genesi parla di un qualcosa che viene tolto a uno per creare l’altro. Al punto che la vita che ne consegue non è che il desiderio che sospinge l’uomo e la donna a cercarsi, quasi presi dall’ansia di ritrovarsi, di ricomporre l’insieme, di cercare e di accogliere l’altro come dono. La donna non è per l’uomo, né l’uomo è per la donna, un oggetto da manipolare o un bene da conquistare e da possedere, e ancor meno è un animale da domare o sottomettere, o addirittura una divinità da adorare e da servire.
Ecco la costola sta a dire che i due, una volta che si incontrano, sono chiamati a camminare fianco a fianco con lo sguardo rivolto verso il futuro, per diventare una sola carne, per essere uno.
L’unità tra i due, dunque, non è già data dalla passione, non è un’integrazione automatica, non è un istinto, è un desiderio certo, ma è anche un compito. È un ritornello che viene ripetuto nelle tre letture: «Per questo l’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie e i due diventeranno una carne sola!».
Il desiderio muove ad uscire dalla propria casa, dalle proprie abitudini, dalle consuetudini per cercare un inedito, una nuova unione nelle braccia dell’amato/a.
Il compito fa costruire una comunione che non sta alle spalle della coppia, come un bel ricordo nostalgico dei tempi dell’innamoramento, o come la copia di un modello da ricalcare, tutt’altro: diventeranno una carne sola, l’unione è un compito da realizzare, ogni giorno.
Quando Gesù viene coinvolto sul modo di far fronte alle difficoltà e agli ostacoli che insorgono per realizzare questa unità, rimanda semplicemente al disegno del Creatore che ha pensato il maschile e il femminile, per cui la differenza sessuale si rivela come una grande scuola per uscire dall’egocentrismo e dal narcisismo, dalla insufficienza e dalla povertà di ciascuno.
Gesù dice che il cammino verso l’unità, verso la comunione fedele, è possibile vincendo la durezza del nostro cuore, quella che Marco chiama la sclerocardia. Il cuore indurito è il cuore rivolto su se stesso, è il cuore che prende l’altro non come dono, ma solo come oggetto per sé. L’indurimento del cuore fa sì che ciascun uomo e ciascuna donna cerchi nel rapporto prevalentemente, e a volte esclusivamente, la soddisfazione dei propri bisogni, cerchi il proprio appagamento, si serva dell’altro e delle sue prestazioni.
Questo rispecchia un po’ tutta la nostra condizione culturale che affonda le sue radici nell’enfasi dei diritti dell’individuo, dei suoi sentimenti e della realizzazione dei suoi bisogni, per cui oggi ha valore ciò che sento, ciò che provo, però si finisce per smarrire la vocazione cui siamo chiamati come uomo o come donna.
Ce lo ricorda la lettera agli Efesini. Anche se usa un linguaggio che è lontano dalla nostra sensibilità, Paolo sembra chiedersi: ma i cristiani che si sposano cosa hanno di diverso da una coppia pagana?
La diversità è nel tenere Cristo come riferimento per la loro esperienza d’amore. Non devono fare grandi cose, semplicemente vivere da discepoli di Gesù anche la loro storia.
Vuol dire che i credenti non avranno una coppia ideale cui fare riferimento: non penseranno che Abramo e Sara siano per loro una coppia ideale, così come non lo saranno nemmeno Giacobbe e Rebecca… Perché il riferimento di una coppia credente è il rapporto d’amore che sussiste tra Cristo e la sua Chiesa: Cristo ha amato la Chiesa fino a dare la sua vita, così amatevi gli uni gli altri.
Allora nella nostra preghiera oggi, anzitutto ringraziamo il Signore per le testimonianze d’amore che incontriamo ogni giorno, per le coppie che nonostante le fatiche costruiscono nella quotidianità una grammatica di fedeltà.
Ma preghiamo anche per tutti coloro che, con grande sofferenza, sono rimasti delusi nel loro sogno d’amore, per tutti coloro che possono aver sbagliato e che confidano nella misericordia di Dio, che ben comprende la povertà dell’uomo e della donna.
Infine vi invito a pregare per i ragazzi e i giovani che si affacciano sul grande mistero dell’amore, perché quando aprono gli occhi, come Adamo, su una persona che sentono di amare, la riconoscano come dono di Dio, e per questo l’accolgano con rispetto.