II DOPO IL MARTIRIO DI S. GIOVANNI IL PRECURSORE - Mt 21, 28-32


audio 11 set 2022

Isaia aveva 25 anni quando nel tempio di Gerusalemme pronunciava le parole che abbiamo ascoltato nel primo brano di oggi.

La sua è una lettura della situazione che si ispira alle canzoni popolari di vendemmia, non a quelle che servivano ad alleggerire il peso del lavoro e delle ore trascorse a vendemmiare. Per Isaia, la vigna è immagine della ragazza che non corrisponde al suo amore, è il canto dell’amato per un amore non capito!

Preso da questa esperienza personale il giovane Isaia riconosce che anche Dio è deluso in amore: la sua gente, il popolo per il quale ha fatto tanto e a cui ha dedicato attenzioni e cura è distratto, superficiale, non ha capito proprio l’amore ricevuto.

Eppure se uno riceve amore, se è oggetto di attenzioni, di premure… dovrebbe rispondere con amore. Invece non è così.

Perché – ed è importante questo particolare – non è che Dio sia come noi che ci rimaniamo male se non veniamo ricambiati. Dio non si aspetta semplicemente di essere corrisposto, anche perché noi siamo abili nel dire di amare Dio, come se bastassero due preghiere, fare un’offerta… e sentirci a posto.

In realtà Dio aspetta che l’amato ami anche coloro che lui ama. Dio con la sua cura d’amore desidera che il suo popolo rispetti e ami i diritti dei poveri, dei piccoli, degli scartati.

Invece proprio il popolo che è amato ed è oggetto di cura e di premura, si comporta come la vigna che produce acini marci, dice Isaia, ed è ingiusto, tratta male i poveri, sfrutta i lavoratori, imbroglia, commette ingiustizie…

Che cosa dovrebbe fare ancora l’amato per la sua amata?

Come far ragionare un cuore distratto e superficiale?

È l’interrogativo centrale del v.4 che il profeta si pone. Parla prestando la voce all’amato: Che cosa devo fare ancora?

Dio amore dice la sua delusione per bocca dell’amico. Il Signore dice la sua amarezza per mezzo di qualcuno che gli presta la voce. Mi sembra questa la più bella definizione di chi sia il profeta: l’amico che parla per conto e in nome dell’amore deluso che è Dio.

Quando nel Vangelo di Matteo riascoltiamo sulla bocca di Gesù la domanda al v.31: Chi dei due ha compiuto la volontà del padre?

Ascoltiamo Gesù che parla da profeta. Gesù è cresciuto alla scuola di Isaia, ne conosce i testi, lo cita all’inizio della sua missione, ne ha interiorizzato l’esperienza spirituale e ne ha anche appreso il metodo.

Dopo aver raccontato del primo figlio che non ha voglia di andare a lavorare poi però si pente e ci va; e del secondo che dice di andare a lavorare, poi invece non ci va… anche Gesù al cuore della sua parabola, pone un interrogativo, che esige una presa di posizione di fronte a un amore che non porta i frutti sperati.

Noi siamo quei due figli. Un giorno diciamo sì, un giorno diciamo no… un giorno facciamo gesti di generosità, un giorno non vogliamo vedere i poveri. Un giorno preghiamo per la pace, il giorno dopo facciamo guerra…

Gesù ci chiede: visto che sei fatto così, quando fai la volontà del Padre?

Quando prendo coscienza di che pasta sono fatto e mi pento.

Il passaggio decisivo sta qui: Gesù sa che non siamo impeccabili, non siamo perfetti, un giorno diciamo sì, l’altro diciamo no… la cosa decisiva è la capacità e l’umiltà di pentirsi, di ritornare sui nostri errori, di fare i conti con ciò che non vorremmo mai che gli altri vedessero, ovvero i nostri difetti, le nostre magagne, le nostre fragilità.

Invece è proprio questa libertà che nasce dal riconoscere che siamo fatti così, che siamo inaffidabili, che siamo opportunisti… è questa libertà che ci rende capaci di pentirci.

Non dimentichiamo che Matteo, l’autore del vangelo, aveva alle spalle questa stessa esperienza, lui era un pubblicano, ovvero un esattore delle tasse che Gesù ha amato. Non è che Cristo gli ha fatto fare prima il seminario o gli ha chiesto una patente di santità… non è stato nemmeno a controllare quanti peccati avesse commesso. Anzi Matteo era un pubblico peccatore: era sotto gli occhi di tutti il suo comportamento scorretto e disonesto. Eppure Gesù lo ha amato, lo ha chiamato e ovviamente lui si è pentito di fronte a tanto amore.

Come Zaccheo nel vangelo di Luca, di fronte all’amore di Gesù ha riconosciuto il proprio peccato, ha fatto i conti con la propria vita sbagliata e restituisce ai poveri. Amato, non solo ama il Signore, ma ama anche i poveri.

Pentirsi dunque non è il ripiegamento su noi stessi, un massacrarci la coscienza con i sensi di colpa, ma pentirsi è per amare di più coloro che Dio ama. Dobbiamo ritrovare come cristiani la bellezza di questo amore che non si esaurisce in un ricambio virtuale con il Signore, ma di un amore capace di portare frutti nelle relazioni umane.

Nella storia siamo stati capaci di distorcere questo dono, tant’è che c’è ancora qualche prete che ad esempio quando uno si pente e si accosta al sacramento della Riconciliazione ha il coraggio di dare per penitenza il compito di dire delle preghiere.

Anzitutto mi devono spiegare come è successo che la preghiera sia diventata una penitenza. Così facendo, insegniamo l’ipocrisia: dico un Pater, Ave, Gloria e sono apposto con Dio.

Gesù ci dice: e no, caro. Guarda che i pubblicani e le prostitute ti passano avanti, ti superano nel regno di Dio perché loro si sono pentiti e hanno cambiato atteggiamento nei confronti degli altri, hanno portato frutti di misericordia, di giustizia, di rettitudine. Hanno amato i piccoli e i poveri, si sono spesi per i forestieri, hanno lavorato come operatori di pace…

Quanti cosiddetti non credenti ci passano avanti nel regno di Dio.

Ci sono persone nel mondo che operano per i diritti umani dei più piccoli, dei più poveri, degli scartati, mentre molti sedicenti cattolici si voltano dall’altra parte pensando che il culto e la preghiera siano sufficienti.

Ma che idea di Dio hanno in testa costoro? Credono davvero che il Signore stia nell’alto dei cieli, sul suo trono, aspettando i nostri fiumi d’incenso e di parole?

Anche oggi i profeti devono parlare, devono parlare in nome di un amore deluso, di un amore che continua ad essere deluso da sedicenti cristiani che si servono di Dio.

Predicano Dio, patria e famiglia… Mi sta bene Dio, e anche la patria e la famiglia, diceva bene Adriana Zarri, eremita e profeta del nostro tempo: Ma il trilogismo Dio-patria-famiglia non mi sta più bene. Dico no a quel dio usato come cemento nazionale, a quella patria spesso usata per distruggere altre patrie, a quella famiglia chiusa nel proprio egoismo di sangue.

Non mi riconosco tra quei cittadini ligi e osservanti che vanno in chiesa senza fede, che esaltano la famiglia senza amore, che osannano alla patria senza senso civico.

Che sorpresa essere superati da chi ha l’umiltà e il coraggio di pentirsi e di cambiare.

(Is 5, 1-7; Mt 21,28-32)