II DOPO L’EPIFANIA - Gv 2, 1-11


(Is 25, 6-10; Col 2, 1-10; Gv 2, 1-11)

Potremmo dire che anche quella di oggi, secondo l’intenzione di Giovanni, è un’epifania di Gesù, una sua manifestazione. Dopo essersi manifestato ai Magi, ai cercatori di Dio, uomini dal cuore pensante, dopo la manifestazione al Giordano come il Figlio amato, solidale con noi perché si mette in fila con i peccatori, oggi nel racconto di Giovanni, Gesù si presenta con un altro linguaggio, quello della festa, quello dell’amore e delle nozze.

In genere quando pensiamo a Cana, pensiamo al miracolo, al prodigio di seicento litri di acqua che diventano vino, ma Giovanni scrive testualmente: Questo a Cana fu l’inizio dei segni compiuti da Gesù. Non parla di miracoli, sappiamo quanto sia equivoco parlare di miracoli. L’equivoco sta soprattutto nel fatto che lo spettacolare, il fenomeno appariscente annebbia e inquina la nostra libertà e di conseguenza ci distoglie dalla fatica della ricerca, del pensare, dalla nostra responsabilità.

Se invece non perdiamo la consapevolezza di essere di fronte a un segno, allora ci mettiamo in atteggiamento di ricerca, siamo quasi costretti a pensare perché come ogni segno, nemmeno questo di Cana va guardato per sé stesso, ma per quello che esso indica. Di che cosa è segno, dunque questo cambiamento dell’acqua in vino?

Il racconto di Giovanni è ricchissimo di significati, ma al di là di tutto vi inviterei a tenere sempre presente quando leggiamo il suo vangelo, che Giovanni tiene il filo della narrazione sempre su due piani, come su due livelli di comprensione, per cui c’è un primo piano che è quello che si comprende immediatamente, ad esempio siamo a Cana di Galilea e il terzo giorno della settimana c’era un matrimonio, com’era consuetudine al tempo di Gesù. C’è una grande festa perché ogni matrimonio è un po’ una festa spettacolare di compagnia, di musica, di balli, di pietanze e di vino … ma ad un certo punto sorge un problema.

Infatti, osservate i particolari: degli sposi non sappiamo nulla, nemmeno i nomi, invece delle anfore di pietra sappiamo che erano precisamente sei. Un particolare che suggerisce l’idea di qualcosa di incompiuto, di manchevole: il numero sei – è il giorno in cui viene creato l’uomo – è un numero in meno della perfezione indicata nella cifra simbolica di sette. Di che cosa si parla allora a Cana di Galilea?

Si parla di noi, dei bicchieri vuoti che sono le nostre vite, che è il nostro rapporto con Dio e tra di noi. Lo diceva bene Isaia alla sua gente nella prima lettura: Guardate adesso soffriamo, siamo deportati, ci manca la libertà, non possiamo festeggiare … ma verrà un giorno in cui il Signore, lui stesso imbandirà una tavola di grasse vivande e di vini eccellenti!

Perché è vero, per tanti motivi può accadere che la nostra religione sia senza gioia, non sia una festa d’amore e di amicizia. Sia un po’ come una festa di matrimonio senza vino, senza esuberanza, come quelle feste noiose a tal punto da non vedere l’ora di andarsene.

Le sei anfore di pietra che contenevano l’acqua per la purificazione, sono lì con tutta la loro ingombrante pesantezza a ricordarci il rischio sempre attuale di una religiosità annacquata e formale; non solo ma anche di relazioni umane che non dicono nulla, sono stanche e sfiduciate.

Cosa fa Gesù? Come si comporta? Gesù poteva benissimo riempire di vino le sei anfore senza che vi venisse messa l’acqua, se invece ha voluto che  venissero riempite d’acqua è perché il vino buono non è senza quell’acqua. La novità di Gesù è la trasformazione, la trasformazione di una religiosità esteriore, formale, e se volete anche di osservanza, in un rapporto d’amore.

Ma noi possiamo comprendere appunto questa trasformazione che a Cana di Galilea l’evangelista Giovanni definisce come l’inizio dei segni, andando alla fine dei segni quando la sera del Giovedì santo durante la cena pasquale, il Signore darà ai suoi il calice del vino dicendo loro: questo è il mio sangue versato per voi.

La trasformazione non è spettacolare perché Gesù a Cana ha regalato più di seicento litri di vino, ma perché quell’abbondanza dice che Gesù con la sua stessa vita donata in quel vino versato, vuole e cerca la gioia per voi e per tutti, per l’umanità intera.

È il dono che trasforma la vita, ci dice Gesù.

Provate a pensare quando nei nostri rapporti d’amore o di amicizia, arriva l’ora nella quale ci si misura sulla stanchezza, sul logorio della quotidianità, sulle cose date per scontate, sulle aspettative deluse ….

Se uno ad un certo punto, nell’ora, nel momento cruciale di una relazione non paga di persona, quella relazione è destinata a finire, non ha futuro.

Il vino buono secondo Gesù è la trasformazione dell’acqua delle nostre lacrime, delle nostre fatiche è il dono di noi stessi nel vino inebriante del Vangelo.

Questo ha fatto Maria: ha permesso l’incontro della povertà della condizione umana con il vino nuovo, che è Gesù. Come avviene questo incontro? Maria non ha parole sue, non ha messaggi suoi da dare, ma rinvia sempre alle parole di Gesù, l’unico mediatore tra Dio e gli uomini (1Tm 2,5), e dice anche a noi oggi: Qualsiasi cosa vi dica, fatela.

Certo tante volte come cristiani rendiamo talmente diluito il Vangelo, da poter compiere il segno di Gesù al contrario: siamo abili nell’annacquare la forza inebriante del Vangelo!

Talvolta sembra che facciamo di tutto per intristire un cristianesimo della gioia e dell’amore, della misericordia e del perdono … Ma non dobbiamo scoraggiarci, sono convinto che il Signore sappia trasformare anche questa nostra povertà con la grandezza del suo amore.

Per questo non abbiamo paura oggi di presentare al Signore le nostre vite, talvolta ridotte a giare vuote, perché le riempia della forza inebriante del Vangelo.