DOMENICA DOPO L’OTTAVA DEL NATALE DEL SIGNORE - Lc 4, 14-22


Questa pagina, che in Luca (4, 14-22) potremmo considerare programmatica del ministero di Gesù, come lo è quella delle Beatitudini nel vangelo di Matteo, assume oggi un significato ancora più pregnante in quanto anche noi siamo dentro questo anno di grazia, anno di misericordia, annunciato da Gesù e che come vedremo, una misericordia che è propria non solo di questo, ma di ogni anno.

Perché se è vero che abbiamo bisogno di mettere l’accento della parola di Dio ora su un aspetto ora su un altro alla luce anche delle nostre condizioni storiche e spirituali, dobbiamo stare attenti a non fare con il Vangelo ciò che facciamo in una campagna pubblicitaria, il Vangelo non è uno slogan che dura il tempo di una comunicazione commerciale. Anche nella stessa chiesa i programmi pastorali passano e si devono sempre adeguare tornando alla radice, al principio del Vangelo, che è appunto ciò che Gesù vuole attuare nella storia e per il quale è stato inviato dal Padre e consacrato dallo Spirito.

Un annuncio che dura sempre, che è sempre vero perché Gesù facendo proprie le parole con le quali Isaia annunciava la fine dell’esilio e il ritorno a Gerusalemme, annuncia la fine di un esilio ancora più stravolgente. L’esilio della misericordia di Dio dal cuore della gente. L’esilio del Dio amore, come dice Giovanni, dalla spiritualità umana e cristiana.

Chi di noi non è cresciuto con l’idea che siccome i nostri peccati «offendono» Dio (curiosa questa proiezione antropomorfica sull’Eterno), in qualche modo noi dobbiamo riparare l’ira di Dio, dobbiamo placare questo Dio arrabbiato con l’uomo sempre malvagio?

Nel periodo della Controriforma si spiegava appunto la nostra infelicità con la colpa commessa, perché uno ha sempre ciò che si merita! Da qui una spiritualità triste, propria di chi si sente sempre in debito e deve dunque trovare il modo di espiare. Ecco allora la riparazione che si poteva realizzare con sacrifici, penitenze, mortificazioni… azioni o gesti che di amore avevano poco o nulla, perché l’importante era placare il senso di colpa.

Chi aveva più strumenti culturali e poteri invece sviluppava un altro atteggiamento che consisteva non nel farsi carico di una colpa, ma di spostarla su qualcun altro, sugli altri, sui diversi, magari persone che sono lontane per cultura, per condizione sociale.

Pensate come funziona ancora oggi questo meccanismo, anzi stiamo pronti perché tra qualche mese torneranno come esempio illuminante le campagne elettorali: di chi è la colpa se le cose vanno male? Sempre di quelli che stanno dalla parte opposta alla mia.

Questo meccanismo infantile funziona perché spostare la colpa del male sugli altri, addossare le responsabilità spostandole da noi stessi agli altri, a un nemico comune, prima era il rumeno, poi lo zingaro, oggi è il profugo, domani chissà… ci assolve e ci permette di costruire una falsa pace, un’ipocrita tranquillità tipica di chi si serve di Dio per se stesso, per il proprio gruppo, per quelli che stanno dalla propria parte.

Ecco allora la necessità che anche noi lasciamo entrare il Signore nelle nostre chiese, così come è entrato nella sinagoga di Nazaret quel sabato mattina, e non diamo per scontato che il Vangelo abiti le nostre tradizioni, le nostre devozioni, le nostre stesse chiese.

Non si tratta solo di un anno di grazia, ma c’è in ballo qualcosa di più. Le tre parole greche (e)niauto\n kuri¿ou dekto/n) non sono facili da spiegare. La Bibbia CEI dice «anno di grazia», ma in realtà il vocabolo greco è più generico, e)niauto\n, è un periodo anche più lungo di un anno. letteralmente dovremmo tradurre: «proclamare un periodo del Signore gradito».

«Del Signore», genitivo soggettivo per dire che è un periodo in cui il Signore opera. Non dunque «un anno gradito a lui», bensì un anno in cui lui fa grazia; o meglio un tempo, dekto/n “di grazia”, che vuol dire «accetto, gradito, favorevole, propizio»[1]. Un tempo inaugurato da Gesù, nel quale il Signore si mostra particolarmente favorevole e propizio all’uomo. Gesù non pensa dunque all’anno giubilare previsto dal Levitico, ma a un tempo storico definitivo in cui la misericordia di Dio si scatena, per così dire, dilaga sull’umanità.

Questo tempo messianico, definitivo, il tempo di tutta la salvezza, comprende quattro gesti caratteristici: «Portare ai poveri il lieto annuncio»; «proclamare ai prigionieri la liberazione»; «la vista ai ciechi»; «rimettere in libertà gli oppressi». Tutti gesti che indicano novità di vita, luce, gioia, pienezza. Queste quattro caratteristiche non si riferiscono semplicemente alle azioni sociali dell’anno giubilare, hanno di fatto un orizzonte molto più ampio.

Al centro infatti ci sono quattro categorie di persone in cui non facciamo fatica a identificarci: i poveri (ptwxoiÍj), gli anawim, secondo l’ebraico, coloro che soffrono (come dice il testo originale di Isaia) .

I prigionieri, il nome in greco (ai¹xmalw¯toij) indica quelli che la guardia tiene lì bloccati con la lancia puntata, perché questo significa: prigionieri delle aspettative, delle prestazioni, delle loro dipendenze.

I ciechi (tufloiÍj), quelli che non sanno vedere futuro, non sanno vedere i volti dei fratelli, non sanno vedere perché il loro sguardo è malato d’invidia, accecato dall’odio.

Infine ci sono quelli schiacciati dall’oppressione (teqrausme/nouj), «oppressi» traduce il vocabolo greco «traumatizzati», cioè quelli che sono vittime di traumi sociali, morali, civili, psicologici, quelli che vivono oppressi dalla paura.

Gesù viene concretamente per questo: dare libertà. Tant’è che la sua predica non è più lunga di un respiro: Oggi si è compiuta la Scrittura quella che è entrata nelle vostre orecchie!

La missione di Gesù è annunciare non un Dio arrabbiato, che si offende delle nostre miserie, ma un Dio che si china su di noi, sta dalla nostra parte. Infatti, «le quattro azioni che descrivono il nuovo tempo messianico hanno la loro origine nello Spirito del Signore, nella forza di Dio; sono un mandato, non sono una iniziativa di Gesù. È una forza dall’alto che lo abilita, non è Gesù come uomo che si butta ad aiutare la gente dicendo: Ti do il segreto per una vita felice. Egli esprime l’intervento di Dio, la straordinaria opera divina. Tutti quei gesti che rilanciano il prossimo verso la vita e la speranza, sono radicati nella potenza di Dio che si manifesta in Gesù e si manifesterà nella storia per portare pace, liberazione, apertura di sguardo, fraternità nell’umanità intera» (C. M. Martini).

E questo, appunto, non dura il tempo di un anno speciale, come dice Gesù: «Oggi si è adempiuta questa scrittura che voi avete udita con i vostri orecchi». «Oggi» è una parola chiave nella vita di Gesù e nel vangelo di Luca. Ricordiamo il messaggio degli angeli ai pastori: «Oggi in Betlemme vi è nato un Salvatore» (Lc 2,11); in casa di Zaccheo: «Oggi la salvezza è entrata in questa casa» (Lc 19,9); al ladro sulla croce: «Oggi sarai con me nel paradiso» (Lc 23,43).

«Oggi», adesso, perché ogni anno è favorevole, ogni giorno è tempo di grazia e di salvezza. Dunque l’affermazione di Gesù descrive l’oggi della Chiesa perché continui la sua stessa missione.

Che cosa dobbiamo fare allora noi, oggi?

Papa Francesco lo afferma chiaramente nella Bolla di indizione dell’anno della misericordia, si tratta di fare nostra la missione di Gesù: «portare una parola e un gesto di consolazione ai poveri, annunciare la liberazione a quanti sono prigionieri delle nuove schiavitù della società moderna, restituire la vista a chi non riesce più a vedere perché curvo su sé stesso, e restituire dignità a quanti ne sono stati privati. La predicazione di Gesù si rende di nuovo visibile nelle risposte di fede che la testimonianza dei cristiani è chiamata ad offrire».

Si tratta allora di metterci anzitutto in ascolto della parola di Gesù in questo tempo di grazia. Riascoltiamo il vangelo della misericordia come prossimità di Dio per noi. Lasciamoci liberare in questo processo lungo e faticoso dall’immagine di Dio che diventa causa di oppressione anziché di liberazione. Ritroviamo la dimensione contemplativa della vita.

E poi chiediamo il dono dello Spirito santo affinché sappiamo declinare la prossimità evangelica nei bisogni e nelle povertà che sempre rinascono e sempre sono da riprendere in mano perché irrompono nelle nostre città e ci pongono di fronte a nuovi problemi, a nuove emergenze e sofferenze, a nuove schiavitù che hanno bisogno del Vangelo della liberazione.

[1] Isaia 49,8: «Al tempo della misericordia» (tempo gradito, che piace a Dio) «io ti ho ascoltato, nel giorno della salvezza io ti ho aiutato».  Parole che Paolo riprende in 2 Cor 6,1-2: «Vi esortiamo a non accogliere invano la grazia di Dio. Egli dice infatti: Al momento favorevole  ti ho esaudito e nel giorno della salvezza ti ho soccorso». E aggiunge: «Ecco ora il momento favorevole, ecco ora il giorno della salvezza!».