SANTISSIMO CORPO E SANGUE DI CRISTO - Gv 6, 51-58


(Dt 8, 2-3.14-16; 1 Cor 10, 16-17; Gv 6, 51-58)

Non so se vi è mai capitato di pensare di condensare la vostra esperienza di vita in un segno, in un simbolo. Non è facile raccogliere in sintesi la ricchezza di una vita, ma se penso ad un imprenditore probabilmente esibirebbe la sua impresa, la sua industria; un artista invece una sua opera, una sua creazione … Ma se la stessa cosa venisse chiesta a noi, se ci venisse chiesto di paragonarci a qualcosa, a qualche simbolo, ovvero di identificare la nostra vita in un oggetto, a che cosa potremmo paragonare noi stessi, cosa potrebbe esprimere la nostra storia, la nostra vita, le nostre scelte?

Il vangelo di Giovanni ci racconta che Gesù in diverse occasioni per parlare di sé e della propria missione ha fatto ricorso ad alcune immagini e simboli attingendo alla vita quotidiana del tempo: Io sono la luce (8, 12); la porta (10, 7.9); il buon pastore (10, 11.14); la risurrezione (11, 25); la via (14, 6); la vite (15, 1.5) … ma, in ordine di tempo, la prima di tutte è quella che abbiamo ascoltato oggi: Io sono il pane vivo disceso dal cielo.  Tutto il cap. 6 di Giovanni è costruito intorno a questa metafora che attinge alla storia biblica, alla storia della manna nel deserto, ma non solo.

Per lungo tempo – e da qualche parte nel mondo ancora oggi – il pane è stato il principale alimento dell’uomo. Quello che si mangiava insieme era appunto il “companatico”.

Sintesi tra natura e cultura, frutto della terra e del lavoro dell’uomo, il pane ha una storia che si perde nella notte dei tempi, segnata ora dalle stagioni feconde, ora dalle carestie. Per il pane si sono combattute guerre e si sono accese rivolte fino ad oggi; per contro condividere il pane è segno di ospitalità e di amicizia, in alcune culture il pane non si può tagliare con il coltello, si può solo spezzare con le mani.

Tra l’altro la metafora del pane è entrata nel linguaggio quotidiano con diversi modi di dire, ad indicare stati d’animo, modi di essere, situazioni di vita: «Essere buono come il pane; guadagnare il pane con il sudore della fronte; stare a pane e acqua; mangiare il pane delle lacrime; a chi ti colpisce con le pietre, rispondi con il pane».

Ancora oggi il pane fa la differenza tra il mondo dei poveri e quello dei ricchi: i primi ne domandano sempre di più, gli altri vi rinunciano volentieri.

Al punto che risuona molto vero ciò che diceva Gandhi: in un mondo dove ci sono tanti affamati, Dio può apparire solo nel segno del pane!

I pochi versetti di Giovanni che abbiamo ascoltato non sono un periodare semplice, anche sintatticamente siamo come in una piccola foresta tropicale di sette proposizioni incastrate l’una nell’altra: tutte ad indicare che Gesù è pane, è dal cielo, e questo pane è carne e sangue che dà la vita.

Che cosa avranno capito i discepoli di queste parole? Come avranno inteso questa definizione che il Signore fa di se stesso come pane della vita?

Certamente questo discorso non suonava loro come un parlare astratto e intellettuale: essi hanno seguito Gesù, lo hanno ascoltato, lo hanno visto piegarsi sui malati, sui sofferenti, lo hanno visto a tavola con i pubblicani e i peccatori e convertire il cuore dei ricchi alla condivisione.

I discepoli di Gesù hanno imparato a conoscere e a nutrirsi del modo di stare al mondo di Gesù, come di un pane buono che alimenta il senso della vita.

Hanno ascoltato Gesù e hanno mangiato il gusto della vita.

E noi con loro possiamo dire oggi le stesse parole che Paolo VI disse proprio qui a Bolsena: Cristo tu ci sei necessario come il pane!

Il pane nella sua immediata semplicità narra la misteriosa legge della vita: la vita nasce da un apparente morire. Gesù nel chicco di grano, che una volta seminato ha poi rotto la dura crosta e ora germoglia, ha colto questa legge di vita: se mi ami, se credi in me, se vivi come me la tua vita non muore, si trasforma; perché la tua vita è preziosa al cuore di Dio. In questo senso nel pane si esprime e si riassume il mistero dell’uomo e della famiglia umana.

Non solo, mangiare di Cristo non stabilisce solamente una relazione per così dire intimistica, individuale con lui. Tradiremmo la consegna di Gesù. E questo non è un rischio nuovo, era già presente appena vent’anni dopo l’Ultima cena, se Paolo dovette scrivere ai cristiani di Corinto: poiché vi è un solo pane, noi siamo un solo corpo: tutti infatti partecipiamo all’unico pane.

E ancora nella lettera ai Romani: Voi siete il corpo di Cristo, le sue membra (12, 4-5).

L’eucaristia è la celebrazione di questo Vangelo: noi facendo memoria del corpo dato per noi, spezzando il pane, mettiamo a fondamento della nostra comunione il dono del Signore.

L’eucaristia rende tutti noi, donne e uomini, giovani e adulti, vecchi e bambini, una comunità nella quale vengono rovesciate le regole e le consuetudini che impongono i potenti delle nazioni. La ragione di questo capovolgimento per cui i più grandi servono i più piccoli, i forti stanno al passo dei deboli, i sapienti si convertono alla follia della croce, è Gesù stesso che sta in mezzo a noi come colui che serve, che dà la sua vita.

Ecco il miracolo di cui c’è gran bisogno oggi! Una chiesa che come corpo di Cristo nella storia del mondo, tiene vivo il Vangelo del pane, della comunione e della condivisione.

Non sono allora un tradimento dell’eucaristia quelle celebrazioni che ripropongono nello stile della partecipazione, nella disposizione dei presenti, le gerarchie mondane? Ma anche soltanto l’educato stare ognuno per conto suo?

Non sono un tradimento del corpo di Cristo le divisioni e le mormorazioni nella chiesa?

Questo è il rischio che abita fin dall’inizio il dono di Gesù. Il memoriale del dono contiene al suo interno fin da subito la storia di un dono tradito! Anche Giuda ha fatto la comunione quella sera, ma poi ha tradito il pane di cui si era nutrito.

Perché se mangi il pane di Cristo, la tua vita non può assumere una forma diversa dalla sua, se assimili il Vangelo dell’eucaristia, fai tue le beatitudini, fai tuo il modo di amare, di vivere e di morire di Gesù. Il destino del discepolo si consuma o si perde nell’assimilazione a Gesù, alla sua vita e alla sua morte.

Quand’ero piccolo e a tavola, come spesso fanno i bambini, giocavamo a fare le palline con la mollìca di pane, mamma e papà subito intervenivano a dire: non si gioca col pane!

Tanto meno con l’Eucaristia possiamo permetterci di giocare, di lasciare che l’abitudine la svuoti della sua portata profetica.

A quasi 750 anni dal miracolo di Bolsena (1263) avvenuto qui nelle catacombe di santa Cristina e dalla Bolla di Urbano IV che istituiva la festa del Corpus Domini (1264), la parola del Vangelo ci chiede molto semplicemente di tornare alla legge del pane. Quella legge che può essere il simbolo e il segno nel quale possiamo esprimere la nostra vita.

Annalena Tonelli, volontaria laica in Somalia e assassinata il 5 ottobre 2003 dopo una giornata di ospedale, scrisse: «La mia vita mi ha insegnato che la mia fede senza l’amore è inutile, che la mia religione non ha poi tanti comandamenti, ma ne ha uno solo, che non serve costruire cattedrali o moschee, né cerimonie, né pellegrinaggi, ma che quell’Eucaristia che scandalizza gli atei e le altre fedi, racchiude un messaggio rivoluzionario: questo è il mio corpo fatto pane perché anche tu ti faccia pane sulla mensa degli uomini, perché se tu non ti fai pane, non mangi un pane che ti salva, ma mangi la tua condanna».