VIII DOPO PENTECOSTE - Mc 10, 35-45
Quando Giacomo e Giovanni, i figli di Zebedeo, pongono a Gesù la richiesta di potersi sedere uno alla destra e uno alla sinistra sul trono della sua gloria, Gesù aveva appena annunciato per la terza e ultima volta ciò a cui stava andando incontro, ovvero che il Figlio dell’uomo sarà consegnato ai capi dei sacerdoti e agli scribi; lo condanneranno a morte e lo consegneranno ai pagani, 34lo derideranno, gli sputeranno addosso, lo flagelleranno e lo uccideranno, e dopo tre giorni risorgerà (10, 32-34).
L’atmosfera drammatica di queste parole non può che far contrastare ancora di più la mancanza di consapevolezza dei discepoli. Siamo al parossismo: come puoi dopo un annuncio del genere chiedere un trono di gloria?
Non solo, dobbiamo registrare l’amara costatazione che il gruppo dei dodici si divide: mano a mano che il Gesù interpreta il suo cammino in termini di offerta della propria vita, i Dodici litigano e rompono l’unità. Non sono più Dodici, ma due da una parte e dieci dall’altra. Ognuno a domandare privilegi e posti di potere.
Alla richiesta dei due fratelli Giacomo e Giovanni di chiedere un trono, che è segno di potere, di riuscita, di successo, di gloria… Gesù risponde con un calice, il calice amaro che egli stesso berrà (14,36), il calice dell’offerta della propria vita. Questo è ciò che Gesù può offrire a coloro che vogliono seguirlo verso Gerusalemme: un calice in cui ci si immerge, come in un battesimo.
Prima di comprendere cosa sia questo calice, è importante per noi notare che gli apostoli non hanno avuto vergogna di ricordare quelle domande che li mettono in cattiva luce. Questo ci dà coraggio perché significa riconoscere che non siamo proprio così bravi come vorremmo, ma abbiamo un percorso da fare. Si impara a stare dietro a Gesù e a fare i conti con noi stessi e le nostre ambizioni, i nostri desideri…
Cos’è dunque questo calice che Gesù deve bere e che anche i suoi, e quindi anche noi, potremo bere, anzi un calice in cui veniamo immersi? Il nostro primo pensiero va nel giardino del Getsemani, quando Gesù nell’angosciata preghiera notturna dice: Abbà, Padre! Tutto è possibile a te: allontana da me questo calice! Però non ciò che voglio io, ma ciò che vuoi tu (14, 36), dove appunto il calice è sinonimo di sofferenza, di dolore, dell’ingiustizia subita e della condanna a morte.
Ma il calice non è il fine della sofferenza di Gesù, non è lo scopo della sua vita. È il prezzo che Gesù è disposto a pagare per portare a termine la sua missione. Non dimentichiamo che il calice è l’immagine che il Signore oppone ai discepoli che chiedono un trono, una poltrona…
Il ragionamento di Gesù è una risposta in tre passaggi.
Primo. Nelle relazioni, in politica, in economia, nell’uso del denaro, delle cose, del creato… in ogni ambito dove vivono le persone incontriamo logiche di potere, di dominio, di controllo. Conosciamo bene queste logiche sottili e pervasive perché c’è sempre qualcuno che vuol emergere, vuol dominare, vuol comandare, che si serve degli altri come sgabello…
Secondo. Tra voi però non è così! (v. 43). Anzitutto sorprende che Gesù non condanni il desiderio in sé, non dice che brutta cosa essere ambiziosi! Che volgarità il potere… e via con una filippica moralistica. Niente di tutto questo. Gesù dice semplicemente: Tra voi non è così. La logica dei rapporti tra i discepoli è altra.
Terzo. Se è vero che quello del potere è un insopprimibile desiderio dell’animo, è inutile fare finta di non essere così, allora se vuoi essere grande e potente, fatti diacono, fatti servo. Vuoi essere il primo, il più bravo, il più brillante, il più performante? Fatti schiavo di tutti!
È sconvolgente per noi questa parola e non ci nascondiamo che se la trasportiamo nella vita professionale, nelle nostre relazioni… ci vediamo già perduti. Perché il nostro riferimento è quello che gli altri possono dire, il consenso che possiamo ricevere, la gratificazione e la conferma da parte degli altri…
Mentre nelle parole di Gesù la motivazione è tutta riferita a lui, è cristologica. Infatti così conclude: anche il Figlio dell’uomo, non è venuto per farsi servire, ma per servire e dare la propria vita. Lui che è figlio di Dio, che abita nella gloria di Dio, si fa servo degli uomini.
Gesù è disposto a bere anche il calice di una morte ingiusta e terribile pur di mantenere fede alla sua missione di servizio all’uomo. In definitiva Gesù mette a disposizione la vita per servire l’uomo, l’umanità. Non c’è nulla di più importante per lui che questa missione ricevuta dal Padre di manifestare al mondo che Dio ci vuole bene, che il Padre si piega su di noi per sollevarci, che l’Eterno vuole la gioia della vita dell’uomo.
Tra il vangelo di Marco (70 ca. d.C.) e la prima lettura del libro dei Giudici (2, 6-17; 1200-1025 ca. a.C.) intercorrono più di mille anni. Risaliamo dall’impero romano da Cesare passando per Nerone fino a Tito, per arrivare all’età del ferro, al tempo della 20a dinastia faraonica, dell’egemonia assira… per constatare che nonostante il progresso della civiltà e delle sue strutture sociali, economiche e politiche, sembra che le questioni dell’uomo siano sempre le stesse, in definitiva cambiano i contorni e i contesti, ma i problemi dell’uomo quelli sono.
Ora la questione si pone per quei discepoli che siamo noi. Una questione che coinvolge la chiesa stessa, perché la domanda dei figli di Zebedeo sta a ricordarci che anche la comunità dei discepoli di sempre è più incline a cercare troni e poltrone, che non a bere il calice amaro di una vita che si dona.
Lo dice spesso papa Francesco denunciando all’interno della chiesa la ricerca di onorificenze, di posti di potere, di mondanità… che non riguarda solo il Vaticano! E che non è semplicemente una questione di stile. Piuttosto è in questione la fedeltà alla parola di Gesù ed è la ripresa quanto mai vera e autentica dello spirito della missione della Chiesa stessa secondo il processo iniziato con il Concilio Vaticano II.
Una missione che vede la chiesa a servizio dell’uomo, sull’esempio della missione di Gesù, una chiesa che impara ogni giorno a farsi serva del Vangelo. Una chiesa che custodisce una sola profonda verità, quella di essere chiamata a continuare l’umile servizio di Cristo per ogni essere umano.
La chiesa impara nel tempo a farsi piccola e serva come si è fatto piccolo e servo il figlio di Dio.
E noi invece siamo intestarditi a continuare un modello di chiesa che ripete una dottrina cristiana diventata inudibile. Non ci ascolta più nessuno se parliamo di Dio come dell’oggetto di un sapere, come l’interlocutore delle nostre pie chiacchiere. Occorre metterci a servizio umilmente con una presenza, forse silenziosa in parole, ma che parla della discrezione della testimonianza. Capace di sopportare piuttosto l’umile silenzio di Dio come qualcosa che ci provoca. Cos’è questo ritrarsi di Dio dalla scena pubblica?
È scandaloso che l’Onnipotente si dimostri debole di fronte alla cultura contemporanea, sembra diventare marginale in una società tecnologica… Leggevo di uno studio sui giovani americani nati dagli anni ’80, i cosiddetti Millenial, dove si riporta che il 75% di loro sostiene che Dio non ha nessuna importanza nella loro vita.
E noi subito a pensare di chi è la colpa o cosa dobbiamo fare… e se invece uno si lasciasse interrogare da un Dio così? Non si tratta di moltiplicare le pratiche e le devozioni, oppure di ricostruire con nostalgia la società cristiana… proviamo a domandarci se invece questo ritrarsi di Dio non ci stia chiedendo una fede che si ricentra sulla missione e si mette a servizio dell’uomo, nella sollecitudine per l’altro e non per le nostre credenze o teorie.
Il libro dei Giudici raccontava di Israele che finisce per servire Baal e Astarti, due famose divinità cananee che diverranno nella storia il simbolo per eccellenza dell’idolatria, Baal la divinità maschile, luminoso come il sole e Astarte la dea dell’amore e della fecondità.
Ci fanno sorridere oggi queste cose… cambiano i nomi, ma non sono poi tanto diverse dai surrogati che ci diamo di fronte all’inevitabile scandalo di un Figlio dell’uomo che non è venuto per farsi servire, ma per servire e dare la propria vita!
Accostandoci all’eucaristia, nella comunione col pane e col vino, partecipiamo alla sua missione disposti ad amare e a servire, dichiarandoci disponibili a bere almeno un qualche sorso allo stesso suo calice!