DOMENICA DELLE PALME messa nel giorno - Gv 11, 55-12, 11


Cos’è questo vangelo del profumo che ci inebria all’inizio della Grande Settimana, della settimana di passione e morte di Gesù?

È curioso che Giovanni si soffermi su particolari così “estetici” a parlare di donne e di profumi… argomenti un poco leggeri quando sta per iniziare un dramma.

Ci troviamo senza rendercene conto dalla parte di Giuda, perché in realtà il suo è un ragionamento del tutto condivisibile. “Sprecare” del nardo prezioso che viene dall’Himalaya, sprecarlo tutto sui piedi di Gesù, è esagerato. Non occorre essere economisti per dire che forse ne bastava un pochino e che vendendolo si sarebbe ricavato qualcosa da dare ai poveri.

Ed è così che Giovanni ci invita a iniziare la settimana santa, raddrizziamo le orecchie e svegliamo il cuore perché è vero che Gesù viene condannato dai capi dei grandi sacerdoti, dai farisei, dagli anziani delle grandi famiglie di Gerusalemme. Certamente costoro, insieme alla folla di curiosi e di perditempo, sono un po’ come la cornice del racconto di oggi e Giovanni li mette all’inizio e alla fine della pagina per dire che sono loro a comandare, tant’è che decidono di togliere di mezzo anche Lazzaro. Le responsabilità sono chiare, infatti sono questi i personaggi che poi ritroveremo nei racconti della passione dei prossimi giorni come protagonisti della sentenza e dell’esecuzione del Cristo, ma sono la cornice.

Giovanni nel cuore del racconto descrive i sentimenti ambivalenti che registriamo dentro la casa di Betania, anche dentro lì incontriamo un qualche problema, anzi forse “il” problema.

Nella casa di Betania c’è la comunità cristiana che nel suo abbozzo risulta composta anzitutto dagli amici del Signore, che sono Marta, Maria e Lazzaro, persone che hanno una bella relazione con Gesù e che pur continuando a fare la loro vita di famiglia e di lavoro nel loro villaggio, sono legati a lui, gli vogliono bene e lui vuole bene a loro.

Poi ci sono i discepoli, intesi in senso stretto, cioè coloro che lui s’è portato dietro per le strade della Palestina, coloro che ha formato e ai quali ha dedicato tempo, energie e intelligenza perché lo conoscessero e continuassero poi la sua missione.

Nella casa di Betania c’è la chiesa: i discepoli e gli amici intorno a Gesù, che lo ascoltano, che lo seguono e che, soprattutto, gli vogliono un gran bene. Anche in questa casa però ci sono tensioni e gli atteggiamenti dei presenti non sono proprio gli stessi.

Giuda, già solo pronunciare il nome per noi è un fastidio che suscita subito la condanna, ma se riusciamo a non lasciarci dominare dal moralismo e proviamo a chiederci: Giuda con le sue parole pretestuose, come dice Giovanni, cosa vuol fare? Cosa vuole ottenere? Cosa ha in mente?

È evidente che di fronte all’affetto e alla premura di Marta e Maria, Giuda, con parole pretestuose – perché dei poveri non gliene importa nulla –  vuole distogliere lo sguardo che è fissato su Gesù, vorrebbe che non fosse più il centro dell’attenzione, non gli va bene che si abbia tanta cura, tanta premura per lui.

Questa è un’operazione diabolica, nel senso letterale, “divisiva”, è una presa di posizione che vuole separare l’amore per Gesù e l’amore per i poveri, vuole impedire a Maria di esprimere tutto l’amore per il Vangelo.

Così Giuda si presenta come la chiara dissociazione tra l’essere e l’apparire, in forza della quale supera anche le stesse autorità giudaiche, la sua è una dissociazione diabolica, nel senso letterale, che divide, separa, spacca in due.

È il contrappunto alla casa piena di profumo: il profumo unisce la casa, la doppiezza la divide. Giuda separa, divide… si può essere apostoli, essere uno dei Dodici, ma incapaci di vera amicizia, di dono, di amore, di disinteresse.

Gesù nella sua risposta conferma di aver colto in profondità l’intenzione del discepolo e risponde: I poveri li avete sempre con voi, ma non sempre avete me. Parole che dicono la sua consapevolezza nel sapere a cosa sta andando incontro, ma siccome lui ha anche detto: Sarò sempre con voi, è anche vero che noi potremmo essere nelle condizioni di Giuda di non essere affatto in sintonia con Gesù, di non avere lui come punto fermo, di non averlo come riferimento al quale tutto il resto è subordinato.

Allora si opera il tradimento del Vangelo, che non è una semplice caduta etica, non è un momento di debolezza cosa d’altronde sempre possibile. È altra cosa e ben più grave della responsabilità delle autorità e dei capi: anche un apostolo può essere diabolico e non avere Gesù come soggetto dell’amore, non tenere il Vangelo al di sopra di tutto, al di sopra anche della chiesa stessa.

Non a caso Giovanni dice che Giuda è un “ladro”, termine che aveva già usato al cap. 10 quando parlando del Pastore e del gregge delle pecore, si riferiva al Ladro come a colui che non viene se non per rubare, uccidere e distruggere, mentre io sono venuto perché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza.

Il ladro di cui Giuda è rappresentativo è in realtà una figura corporativa: certo sono i falsi pastori del popolo d’Israele che hanno usato il gregge per il loro tornaconto (10,1.8.10), ma possono esserlo anche i discepoli, gli apostoli di cui Giuda è la tragica personificazione.

Il tradimento è quando metti l’Istituzione al di sopra del Vangelo, il tradimento è quando non ami Gesù per quello che è.

Non è che Giuda sia banalmente malvagio e cattivo… Giuda non ama Gesù, se ne serve, lo vorrebbe diverso, lo vorrebbe ridotto ai suoi obiettivi e interessi, e quando si rende conto che invece il Signore non ha altro interesse che quello di amare, di perdonare, di vivere le Beatitudini, allora non può più accettare tutta l’attenzione di Maria di Betania, l’investimento che ella fa per Gesù, per lui è uno spreco. Ha già deciso che lo venderà e che verrà tolto di mezzo (Mt 16,16 e Mc 13,1).

Intanto però grazie all’unzione di una donna, Maria di Betania, Gesù entra in Gerusalemme come Unto, come Messia, come Cristo: con l’unzione del servizio e non del potere, con l’unzione del dono e non dell’istituzione che domina.

Gesù è Messia così, in questa maniera e non a caso noi ci diciamo cristiani, discepoli o meglio amici di un Uomo che imparano da lui e agiscono come papa Francesco quando si china a baciare i piedi ai due presidenti del Sud Sudan. Un gesto sublime che dice a cosa significa essere cristiani alla stessa maniera di Gesù, e forse può dare un qualche fastidio che Francesco non appaia tanto interessato a ridare prestigio e centralità sociale alla Chiesa, bensì a rendere evidente la necessità di coniugare in tutt’altro modo il rapporto tra Chiesa e Vangelo, restituendo a quest’ultimo il primato ceduto all’istituzione come è accaduto diverse volte nella storia.

E se Gesù avesse imparato proprio dal gesto ricevuto da Maria al punto  che la sera della Cena facendo memoria di quel gesto si metterà a lavare i piedi ai suoi discepoli e anche a Giuda?

È questo il profumo del Vangelo di cui ha bisogno l’umanità, la società, ma anche la chiesa perché l’odore della morte viene vinto dal profumo del Vangelo, dal profumo della Pasqua, dal profumo della vita.

Dicendo che il Vangelo è come il profumo non intendo dunque suggerire un’operazione estetica o effimera, non intendo rimandare a un’azione cosmetica di maquillage che nasconda le doppiezze e le ipocrisie dell’istituzione, ma penso alla necessità di metterci in gioco per Gesù, per il Vangelo e per quello che ha significato per Gesù quel gesto: è il profumo che viene dal dono di sé, dall’amore esagerato di una donna che lo amava al di sopra di tutto.

Se non esageri, tradisci. È il tempo non di calcolare, ma di esagerare con il Vangelo, perché possiamo dire, come Paolo: «15Noi siamo…  il profumo di Cristo» (2 Cor 2,15).

(Gv 11,55-12,11)