SOLENNITÀ DELL’ASCENSIONE - Giovedì dopo la VI domenica di Pasqua - Lc 24, 36b-53


(At 1, 6-13a; Ef 4, 7-13; Lc 24, 36b-53)

Dovremmo oggi almeno domandarci come sia possibile fare festa per uno che se ne va? La festa è per uno che viene, che arriva, non per uno che parte. La festa è per uno che ci viene a trovare, che ci si fa incontro e non per uno che sembra sottrarsi.

Gesù se ne va, così abbiamo ascoltato da Luca sia nel libro degli Atti che nel Vangelo, come anche da Paolo nella lettera ai cristiani di Efeso: Gesù ritorna al Padre.

L’esperienza dei discepoli – che può essere anche la nostra – annuncia che il mistero dell’ascensione di Gesù non è semplicemente il suo sottrarsi alla nostra vista, al tatto, ai nostri sensi… il Signore non è andato lontano, anzi, ora è più vicino di quanto possiamo immaginare.

Perché, in realtà, il corpo di Gesù era anche un limite: solo pochi poterono vederlo e toccarlo, pochi poterono udire la sua voce ed essere chiamati per nome, poche città hanno potuto essere attraversate da lui…

Se il Signore prima viveva con “quei” discepoli, camminava davanti a loro, ora invece è sempre con tutti i discepoli di ogni tempo, come egli stesso aveva detto: Io sono con voi tutti i giorni fino alla fine del mondo!

Dunque con l’ascensione, con l’assenza del corpo fisico di Cristo, inizia la corsa del Vangelo da Gerusalemme al villaggio più lontano, dalla vita di alcuni pescatori alle infinite storie di uomini e di donne che da allora cercano, domandano, gridano la loro sete di Dio.

Davvero l’ascensione è una separazione, ma proprio per questo è una festa: la festa della possibilità di una comunione che raggiunge tutti gli uomini e le donne di ogni tempo. E questa è una prima nota di paradossalità della festa di oggi.

 

Non solo, nel racconto degli Atti l’ascensione segna la conclusione degli incontri di Pasqua, ma diventa anche il punto di partenza della missione apostolica.

 

Ecco, sembra dirci Luca: tornando al Padre, cosa lascia Gesù sulla terra?

Una ricca eredità di proprietà e di beni? Di istituzioni, di denaro o di pensiero raccolto in qualche biblioteca?

Non lascia quasi nulla, se non un gruppetto di uomini impauriti e confusi e un piccolo nucleo di donne coraggiose, insomma dei discepoli fragili.

 

Eppure proprio a costoro affida la sua stessa missione: a quelle mani così inaffidabili, come ai nostri cuori così incerti, il Signore chiede, come dice Paolo, di essere apostoli, profeti, evangelisti, pastori e maestri… al fine di edificare il corpo di Cristo!

 

L’assenza del corpo fisico di Gesù dal mondo inaugura l’edificazione di quel corpo di Cristo che è la sua Chiesa, dunque il tempo della nostra responsabilità.

È questo l’altro carattere paradossale del mistero che oggi celebriamo: mentre, per un verso, la scenografia di Gesù che sale al Padre utilizza gli schemi espressivi della teofania, per cui la nuvola che nasconde al tempo stesso rivela che c’è una presenza, nel giorno in cui il Figlio dell’uomo ha superato il crinale che separa il tempo dall’eternità, ci chiede non di guardare in alto.

 

A questo i due uomini vestiti di bianco invitano i discepoli. I due uomini vestiti di bianco che sono gli stessi della trasfigurazione sul monte, sono appunto Mosé e Elia, insieme ai quali Gesù annunciò a Pietro, Giacomo e Giovanni la sua missione pasquale.

Ora Mosè ed Elia, cioè tutta la Scrittura, la Torah e i Profeti, sono lì a dire che è certo che il Signore tornerà, ma che nel frattempo non dobbiamo stare a guardare il cielo perché la terra attende di essere fecondata dalla parola del Vangelo, quella parola che fa crescere il corpo di Cristo nella storia del mondo.

 

Il giorno dell’Ascensione non è il giorno delle alienazioni religiose, non è il giorno della chiusura nell’intimismo spirituale… ma è il giorno in cui il discepolo viene consegnato alla sua responsabilità al fine di edificare il corpo di Cristo.

 

Questo ha del paradossale perché il corpo di Cristo ha bisogno di noi per continuare la corsa del vangelo oggi. Anche se noi siamo imperfetti, limitati, ci conosciamo bene e sappiamo di essere inaffidabili eppure siamo indispensabili: l’Eterno “è costretto” a passare attraverso di noi per arrivare agli altri.

 

E credo che, stando alla parola di Dio, dobbiamo considerare almeno due ambiti nei quali possiamo fare in modo che il Vangelo continui la sua corsa e che almeno non siamo noi a rallentarlo.

Se guardiamo dentro la comunità cristiana, Paolo ci ricorda che  i carismi di ciascuno sono non tanto al servizio del prestigio o del potere di ciascuno di noi, che il servizio che facciamo nella nostra parrocchia, nella Chiesa, non deve perdere di vista che è la risposta al dono che il Signore ci ha fatto.

Quante volte invece anche nella chiesa ci si ammala di protagonismo, ci si crede indispensabili, pensiamo che le cose come le facciamo noi non le faccia nessuno… e da qui nascono gelosie, rivalità, invidie… prepotenze, tutte cose che certamente non rispondono all’invito che ci faceva Paolo e che ci deve essere di guida e di orientamento nel nostro impegno, vale a dire: alcuni sono apostoli, profeti… allo scopo di edificare il corpo di Cristo finché arriviamo tutti all’unità della fede.

 

C’è un secondo ambito, e che riguarda il contesto nel quale oggi ci troviamo a vivere il Vangelo. Se fino a qualche anno fa eravamo noi ad andare a portare il Vangelo in terra di missione, oggi ci rendiamo conto che diverse religioni sono giunte da noi, alcune ci appaiono più aggressive e sembrano minacciare la nostra identità…. Ebbene, come annunciare il Vangelo, in queste condizioni diverse, come tenere fede al mandato di Gesù?

Guardando a come Gesù ha vissuto la sua missione di annunciare il volto del Padre, quanto più noi saremo capaci di entrare nel modo di pensare, di vivere, di essere del Cristo, tanto più il Vangelo continuerà la sua corsa nella storia dell’umanità.

 

L’ascensione è la festa di Gesù che si siede alla destra del Padre, ma proprio questo “sedersi” del Cristo alla destra del Padre ci chiede di “andare”, rimanda alla nostra responsabilità perché il suo Vangelo continua a vivere in tutti coloro che aprono il cuore alla sua Parola, in coloro che lo riconoscono nel povero, in coloro che non smettono di credere che la mitezza, la pace, la non violenza, la condivisione sono i germi del regno di Dio.

Così il corpo di Cristo si edifica di giorno in giorno con questa nostra umanità.