X DOPO PENTECOSTE - Mt 21, 12-16
Ogni tappa della storia d’Israele può essere riletta da noi come una stagione del nostro cammino spirituale.
Il disegno del Padre si incarna nella storia in una successione di figure che, di domenica in domenica come pedagoghi, da Abramo a Mosè, da Giosuè a Samuele, da Davide a Salomone… fanno avanzare la sua alleanza fino a Gesù.
Facendoci conoscere e affezionare a questi personaggi il Signore ci insegna a progredire nella nostra vita, e nel mostrarci i loro limiti e le loro debolezze ci aiuta a scoprirli anche in noi, per vedere come anche a noi sia possibile l’amicizia con lui. Abbiamo qui delle grandissime lezioni di discernimento di come lo Spirito di Dio conduce gli uomini e le donne del suo popolo nella storia.
Questo è l’esercizio spirituale che la lectio divina ci impegna a fare anche oggi mentre assistiamo al passaggio storico dalla tenda di Davide che custodiva l’arca al tempio di Salomone, infatti anche questa potrebbe essere una tappa della nostra esperienza di fede.
Salomone raccogliendo l’eredità politica e spirituale di suo padre Davide, consolida il regno, ne amplia i confini, lo organizza saggiamente, stringe alleanze politiche internazionali e matrimoniali specie con l’Egitto. Con lui Israele pur nella sua piccolezza, conosce insieme alla pace il suo massimo splendore per quarant’anni.
L’impresa più grandiosa di Salomone rimane la costruzione del Tempio al Signore e fin qui nessuna novità: quanti templi sono stati costruiti nella storia dell’umanità? Così anche Israele sembra proseguire questa consuetudine… ma al termine della lettura incontriamo una novità: «Appena i sacerdoti furono usciti dal santuario la nube riempì il tempio»: escono i preti e arriva la nube che segna la presenza dell’Eterno. E a Salomone non rimane che costatare: «Ho voluto costruirti una casa eccelsa…e il Signore ha deciso di abitare nella nube oscura»!
Non è facile imbrigliare l’Eterno; non puoi dire «è qui», piuttosto che «è là»… egli abita la nube, anzi una nube oscura.
La nube è un segno ambivalente: è evidente e ben visibile, indica una presenza ma al tempo stesso nasconde, copre, rivela, nel senso letterale che ri-vela, ri-copre… dice e non dice.
La «nube della non conoscenza» diverrà per i mistici in particolare un’esperienza dolorosa, che rimanda ai giorni dell’Esodo, quando il popolo camminando nel deserto poteva avvertire la presenza di Dio che lo guidava, a nessuno era permesso mettere le mani su Dio, come avevano ingenuamente tentato con il vitello d’oro.
Dio non lo puoi raffigurare, la sua visibilità è inafferrabile, non è manipolabile. Non gli puoi costruire una casa: come puoi costringere una nube dentro un soffitto e quattro pareti?
Non è forse questa un’esperienza comune? La nostra vita di fede è legata a luoghi particolari: magari un santuario, una chiesa, un’immagine… e psicologicamente e affettivamente ritorniamo lì ogni tanto come a voler ripercorrere quell’esperienza, quella sensazione di spiritualità, e magari ci è capitato di rimanere delusi perchè cercando di ripetere quella sensazione non abbiamo sentito nulla, è rimasto il ricordo di un’emozione, di una bella esperienza… niente di più, perchè la nostra tentazione, la nostra preoccupazione è un po’ come quella di Salomone di costruirci il nostro piccolo santuario dove custodire l’esperienza di Dio.
Dio ci dice: non sono lì, abito la nube, o meglio sono anche lì, ma la mia presenza non si esaurisce lì piuttosto che altrove, e tu non devi ancorare il tuo cuore a un luogo. Dio ti sospinge avanti; la nube ti chiede di continuare a camminare, a procedere, perchè è lo Spirito di Dio che feconda la storia, non i monumenti che pure sono importanti.
L’immagine della nube dunque ci dice la presenza e al tempo stesso l’irriducibilità di Dio, come nei giorni scorsi celebrando la festa della trasfigurazione abbiamo ascoltato di Gesù che con Mosè e Elia, e poi Pietro, Giacomo e Giovanni sul monte Tabor vengono avvolti dalla nube dalla voce: «Questi è il mio Figlio, l’amato; ascoltatelo» (Lc 9,35). Sarà la stessa nube a sottrarre Gesù allo sguardo dei discepoli il giorno dell’ascensione e che lo rivelerà nella sua gloria il giorno della sua venuta.
Gesù raccogliendo la tradizione storica del suo popolo e portando avanti il disegno del Padre riconosce che se l’uomo riduce la presenza di Dio in un perimetro, succede che nella migliore delle ipotesi ne fa un talismano, un feticcio, o addirittura lo riduce a un affare!
Quando Gesù nel vangelo caccia dal tempio commercianti e cambiamonete lo fa per riaffermare che se c’è una casa di Dio, questa è una casa di preghiera, non di commercio per vendere i gadget di Dio: Dio non ha gadget, non ha ricordini, medaglie o talismani, Dio abita il cuore che prega e che ama.
Con Gesù compiamo dunque un passo avanti notevole, per lui non esiste più dunque un posto speciale dove si possa trovare Dio, non ci sono oggetti speciali che in qualche modo contengano Dio, se non in quel posto in cui si incarna inevitabilmente l’avventura della libertà umana e cioè il corpo.
«Questo è il mio corpo» è espressione cardine del testamento con cui Gesù lascia in eredità la forma attraverso cui poter rimanere realmente con lui e attraverso di lui nel cuore della vita divina.
E proprio nella preghiera eucaristica osservate come la prima volta invochiamo lo Spirito Santo sul pane e sul vino «perchè diventino corpo e sangue di Cristo», la seconda volta lo invochiamo su di noi «perchè diventiamo in Cristo un solo corpo e un solo spirito» (Preg. Euc. III).
È quanto crede fermamente Paolo mentre scrivi ai Corinzi: «Noi siamo il tempio del Dio vivente» e non lo afferma con arroganza e presunzione, ma con il senso di responsabilità che gli fa dire: questa comunità è il corpo di Gesù in questo quartiere, in questa città, un corpo che deve portare a compimento la sua santificazione, cioè vivere il modo di fare di Gesù, di pensare di Gesù, il modo di essere di Gesù.
La riprova storica di questa convinzione è che quando i primi cristiani dopo le persecuzioni hanno la necessità di costruire un edificio per ritrovarsi insieme perchè cresciuti di numero e riconosciuti nel loro diritto di credere, non prendono a modello l’edilizia religiosa del tempo, non copiano cioè il tempio pagano, ma costruiscono la domus ecclesiae adottando il modello della basilica romana, un edificio pubblico polifunzionale, un edificio civico adeguato evidentemente ai bisogni della liturgia cristiana. La basilica è la casa dell’assemblea, non la casa di Dio, perchè il Signore si fa vivo nella comunità riunita.
Sì, noi che siamo divisi, che litighiamo, che parliamo alle spalle gli uni degli altri, che siamo rosi dall’invidia… il Signore ci rende suo corpo perchè continuiamo i suoi gesti e le sue parole nella storia del mondo.
Un corpo che si presenta oggi al mondo forse un po’ acciaccato, con qualche disfunzione che possiamo ben comprendere come fisiologica, e con altre che invece potremmo in qualche modo curare.
Mi sembra di estrema attualità quanto scrive nelle sue memorie un vescovo canadese (Alex Carter) ricordando da giovane prete un’udienza con Pio XI ormai prossimo alla morte; praticamente quella fu l’ultima udienza, siamo nel 1939, settant’anni fa. Disse il papa: «Voi siete giovani preti venuti a Roma. Ora ritornate in Canada e continuerete a costruire la Chiesa nel vostro paese. Voglio che portiate con voi questo messaggio. La Chiesa, il corpo mistico di Cristo, è diventata mostruosa. La testa è enorme, ma il corpo è rattrappito. Voi, sacerdoti dovete ricostruire il corpo della Chiesa e l’unico modo che avete per farlo è mobilitare i laici. Dovete chiedere ai laici di diventare insieme a voi testimoni di Cristo. Dovete chiedere soprattutto a loro di riportare Cristo nel posto di lavoro, nel mercato».
Parole ancora vere oggi che ancora dobbiamo misurarci con un corpo «mostruoso»: la testa è enorme, ma il corpo è rattrappito. Per questo preghiamo lo Spirito Santo perchè ci sia dato di fare la nostra parte fino in fondo affinchè diventiamo in Cristo un solo corpo e un solo spirito.
(1 Re 7, 51-8, 14; 2 Cor 6, 14-7, 1; Mt 21, 12-16)